Non esattamente come li ricordavamo: ANCIENT VVISDOM – Master of the Stone

Qualcuno se li rammenterà. Erano venuti fuori tredici e passa anni fa suonando acustici e facendo i metallari. Se ci pensate, una cosa intrigante. Si chiamavano Ancient VVisdom, con due vu, cone Vercelli, per non confonderli con altri blackster che piacciono qua ai colleghi. Sinceramente, non so se faccio bene a mettere in maiuscolo entrambe le vu. Sembravano (erano?) dei redneck texani satanisti e suonavano una cosa che doveva tantissimo a quel paio di famosissimi unplugged MTV di era grunge. Più Alice in Chains che Nirvana, più Satana che eroina. Più neofolk, pure, di quello country, americano, o meglio, americana. A pensarci, manco troppo distanti da brani come Landing on the Mountain of Megiddo da Down II. Fichi erano fichi. A me non facevano impazzire troppo, ma si facevano notare. Poi com’è, come non è, li abbiamo persi di vista in molti, anche perché poi dal terzo disco in avanti le chitarre elettriche sono aumentate e gli Ancient VVisdom sono diventati un gruppo occult doom un po’ nella media. Mi ricapitano sotto il naso ora, scopro stabilmente accusati presso la genovese Argonauta. Ben diversi. Tanto per cominciare, Master of the Stone, il nuovo disco, inaugura i nuovi riti con una canzone esattamente in stile Uncle Acid and the Deadbeats.

Sold My Soul to Satan dallo Zio Acido prende di tutto, elettricità, suono, riff, melodia, e come singolo fa il suo, ruffiana com’è. Sorprendente, per lo meno per me che mi ero perso i cambiamenti dei dischi immediatamente precedenti. Piacevoli certi schiaffi heavy doom come The Adversary e Apollion (tematicamente piuttosto fissati), anche se le linee vocali, ancora in fondo grunge, non sono il massimo. In campo elettrico, quella davvero bella (davvero) è Ashes From on High, un doom maschio, cupo, violento, slayeriano (doom slayeriano? Esatto, ricordatevi i Dragonauta), con un ritornello che d’accordo, sarà magari identico a cento brani minori di fine ’90, ma funziona, gira bene, pure abbinato con un rutto growl nel finale. Dura poco, potevano farla più lunga. In campo acustico, di brani ce ne sono rimasti due, e sono neofolk purissimo, puro Death In June, tagliato pochissimo. Son pure belle, queste due canzoni, ma diversissime, anzi opposte, rispetto allo spleen di Seattle. Ce ne frega qualcosa? In fondo no, l’ascolto di questo concentrato di inni al Demonio è tutto gradevole. Una cosa grandiosa poi gli Ancient VVisdom, in tutte le versioni, l’hanno sempre avuta e la mantengono: non fanno mai durare un disco molto più di mezz’ora. (Lorenzo Centini)

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