Un’ode agli ELDAMAR

L’uscita di un nuovo disco degli Eldamar mi ha fatto rendere conto di non aver pubblicato la mia parte della rubrica Dieci dischi per gli anni Dieci. Ho messo online tutte le altre ma la mia me la sono dimenticata. Pensate come stavo messo in quel periodo, e peraltro adesso sto messo molto peggio: prima almeno riuscivo a dormire. L’associazione mentale tra le due cose mi è venuta naturale perché il debutto degli Eldamar, The Force of the Ancient Land, è di gran lunga uno dei dischi a cui sono più legato, tra quelli usciti nello scorso decennio. Non solo perché ho ricordi personali vividissimi di quel disco e del periodo in cui lo ascoltavo a ripetizione, ma anche perché è un album a cui torno puntualmente in determinati stati d’animo e in determinati tipi di clima. E ora che è tornato il freddo, che fa di nuovo buio presto e che lo stato d’animo tende alla contemplazione, è bello che gli Eldamar si siano rifatti vivi.

Che poi gli Eldamar sarebbero una sola persona, Mathias Hemmingby, di un paesino poco a sud di Oslo. Ogni volta che parlo al singolare di una one man band mi aspetto sempre che arrivi qualche sventrapalle (il prof. D’Amico li chiamerebbe besserwisser) per specificarmi col ditino in alto e il sorrisino sardonico che no, non è un gruppo, ma una persona sola. Vaffanculo. Quindi GLI Eldamar sarebbero una sola persona, appunto, per di più giovanissima – ai tempi del debutto mi pare avesse appena raggiunto la maggiore età – e che se la suona e se la canta tutto da solo, come si dice in questi casi. Ha anche un altro gruppo (intendo gruppo vero), gli Askheimr, il cui debutto è uscito quest’anno e che dovrò sentire e recensire nei prossimi giorni. La discografia degli Eldamar è così sviluppata: il suddetto The Force of the Ancient Land (2016), il secondo A Dark Forgotten Past (2017), poi uno split coi Dreams of Nature e una cover di Land of the Dead uscita in un disco tributo ai Summoning. La suddetta cover è splendida e merita assolutamente che tutti voi la ascoltiate appena possibile, ovviamente in cuffia e in solitudine:

Detto questo, l’uscita qui in oggetto si chiama Lost Songs from the Ancient Land e consta di tre pezzi. Vi sembreranno pochi, ovviamente, ma gli Eldamar fanno quasi sempre canzoni lunghissime e infatti qua si sfondano abbondantemente i quaranta minuti di durata. Come il titolo preannuncia si tratta di una raccolta di vecchio materiale: Hagalaz (11 minuti) era l’unico loro pezzo contenuto nello split coi Dreams of Nature; poi c’è la versione demo di Spirit of the North (l’apertura del debutto, un magnifico quarto d’ora che rimane la cosa più bella che abbiano fatto); infine Entering Eldamar, pezzo tratto da un vecchio demo immagino introvabile.

Se avete già sentito anche di sfuggita gli Eldamar non c’è bisogno che vi spieghi niente, perché fanno sempre la stessa canzone. Se non li avete mai sentiti, si tratta di un black metal lento, morbido e atmosferico, con la caratteristica di essere fondato su questo canto angelico femminile modulato al sintetizzatore. C’è stato un momento in cui pensavo che ci fosse una donna vera a cantare e sinceramente non ne vado troppo fiero. È una roba casalinga, anzi casereccia, fatta con pochi mezzi tra cui una drum machine di cartongesso e, mi ripeto, perennemente e fieramente uguale a sé stessa. Immaginate un incrocio tra Filosofem e i Lustre e ci sarete vicini, anche se dovete aggiungerci quella continua voce femminile sintetica che stabilisce la linea melodica. Nei due pezzi presi dai demo peraltro la suddetta “voce” non c’è, e infatti ascoltandoli si sente che manca qualcosa. Inoltre non c’è niente di grim negli Eldamar: la loro musica è malinconica, riflessiva, magari triste, ma non ha nulla di cattivo, satanico o che so io. Dunque, se vi piace il black atmosferico su ritmi lenti che ripete un riff per minuti e minuti, dipingendo scenari in cui la neve ammanta tutto fino all’orizzonte e la piccola selvaggina zompetta solitaria, non so se troverete mai qualcosa di meglio degli Eldamar. In qualsiasi altro caso credo che vi verrà voglia di spararvi nel ginocchio dopo trenta secondi. (barg)

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