Fuga dall’RSA: THE ROLLING STONES – Hackney Diamonds

Diciotto anni dopo l’ottimo A Bigger Bang, e a due anni dalla scomparsa di Charlie Watts, tornano i Rolling Stones e lo fanno nel modo migliore possibile. Salutato da molti come il miglior disco degli Stones da quarant’anni a questa parte, Hackney Diamonds (che prende il nome da un quartiere londinese malfamato e amato dai nostri e dallo slang londinese per indicare le schegge delle vetrine di un negozio dopo una rapina) potrebbe essere il Time Out of Mind degli inglesi, pur essendo quanto di più lontano possibile dal capolavoro “della terza età” di Dylan. Se è vero, infatti, che il disco di Bob Dylan ormai viene usato come pietra di paragone per i grandi artisti che, dopo un’importante carriera alle spalle, calano il famoso asso dalla manica sul tavolo, è altrettanto vero che si parla sempre di dischi della “maturità”, che rappresentano quasi un coming of age verso la senilità.

Nel caso di Mick Jagger, Keith Richards e Ronnie Wood, invece, non c’è traccia di una maturità che, per certi aspetti, è stata raggiunta in giovane età, ma solo la voglia di fare quello che si sa fare meglio e di farlo bene, molto bene (un po’ come accaduto con l’ultimo Scorpions l’anno scorso), non avendo alcun motivo di pubblicare qualcosa come “scusa” per andare in tour. Allo stesso tempo c’è anche la volontà di non suonare come dei residuati bellici, ed è per questo che la scelta sul produttore è caduta su Andrew Watt, una professionista che sa come scalare le classifiche pop di tutto il mondo (Post Malone, Charlie XCX, Justin Bieber) e che ha spesso collaborato con vecchie glorie (Elton John, Ozzy, Stevie Wonder, Eddie Vedder, Iggy Pop).

Produzione che è un po’ croce e delizia di quest’album. Da un lato è sicuramente più pulita del necessario (a parte la splendida cover conclusiva) e ha una batteria troppo in secondo piano, dall’altro, se si ascolta il disco su uno stereo decente, dimostra una dinamicità e una pienezza che non si trova di frequente in album del genere e che emerge sin dall’iniziale Angry, primo singolo e brano meno riuscito del lotto.

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Una Start Me Up del 2023 che fa il suo, che ti entra in testa e che, per carità, fa sempre piacere ascoltare (in ossequio al teorema della parmigiana della mamma), ma sa troppo di compitino ripulito. Già dalla successiva Get Close (con Elton John al piano) cambia la musica, con un mid-tempo semplice ed efficace e un ritornello accorato, benedetto da un Mick Jagger che sembra non avere età e che “raddoppia” con la successiva ballata Depending on You, tra le migliori dell’album, impreziosita da un bellissimo e malinconico testo (Now I am too old for dying and too old to lose).

A dispetto di un suono “moderno” gli Stones non cercano nuove strade o di sparigliare le carte, ma solo di suonare vitali, e il glam rock anni ’70 di Bite My Head Off – con nientepopodimeno che un indiavolato Paul McCartney al basso – potrebbe insegnare più di qualcosina a tanti giovani gruppi rock contemporanei. Il fatto che Hackney Diamonds (se si hanno un paio di orecchie funzionanti) sia probabilmente il miglior Stones degli ultimi quarant’anni non significa che sia un capolavoro, e neppure un disco paragonabile ai migliori episodi della loro discografia (sì, dati alcuni commenti letti in giro è necessario evidenziare questa ovvietà), ma “solo” un ottimo album, particolarmente ispirato e privo di riempitivi.

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Perché, se è vero che sono presenti pezzi più da “pilota automatico”, come la già menzionata Angry o Whole Wide World, è altrettanto vero che Hackney Diamonds è un album assai vario, come dimostrato dalla doppietta Dreamy Skies/Mess It Up. La prima è un blues acustico e molto melodico, come solo gli Stones sanno fare, e con un testo estremamente cinematografico (An old AM radio is all that I’ve got / It just plays Hank Williams and some bad honky-tonk / ‘Cause I got to take a break from it all). La seconda è un potenziale singolo, danzereccio e funkettoso, assolutamente irresistibile, con un Jagger che sembra un ragazzino, urletti compresi, e con alla batteria un Charlie Watts – a cui il disco è dedicato – come sempre strepitoso. Quest’ultimo compare anche sulla successiva Live by the Sword, blues stortissimo con Elton John al piano e Bill Wyman al basso, realizzando di fatto l’ultima possibile reunion dei Rolling Stones anni ’70, al netto di Taylor.

Ma gli Stones lasciano il meglio per il finale: dopo la delicata Tell Me Straight cantata da Richards, è il turno di Sweet Sounds of Heaven, una di quelle ballate rock, soul e blues che solo i Rolling Stones riescono a fare da oltre 60 anni, da Shine a Light a You Can’t Always Get What you Want, e che vede la presenza di Lady Gaga e di Stevie Wonder al piano. Un brano accorato, intenso, travolgente che costituirebbe la conclusione perfetta per qualunque disco. Dato però che questo potrebbe essere – se non altro per ragioni anagrafiche – l’ultimo album dei Rolling Stones, Mick, Keith e Ronnie hanno optato per una vera e propria chiusura del cerchio: una meravigliosa cover di Rolling Stone Blues di Muddy Waters, da cui hanno preso il nome. La migliore chiusura possibile per un album davvero sorprendente per qualità delle composizioni e per vitalità e che, come il precedente A Bigger Bang, resterà nel lettore per molto tempo. (L’Azzeccagarbugli)

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