Un Sabbath italiano vol.8: Paradiso e Inferno

Spero lo scorso volume vi sia piaciuto. Anzi, sono sicuro che se non conoscevate Lydia e gli Hellua Xenium non è possibile che ne siate rimasti indifferenti. Più italian dark sound dell’italian dark sound. Peccato davvero che abbiano pubblicato solo quattro brani, benché per lo più magnifici. Se volete qualcosa di piu, qualcosa di altrettanto selvaggio, millenarista ed elettrico, non c’è molto allo stesso livello nei cassetti impolverati del prog italiano. Ma la volta scorsa vi avevo promesso che avremmo seguito le orme di Fernando Lattuada, Rinaldo Prandoni e del chitarrista Piero Giavini. Perché un ulteriore asso me lo sono tenuto, non l’ho mica giocato subito. Me lo gioco oggi, alla fine è di questo pezzo qui. Se vi va, allora, seguitemi anche questa volta. Se la volta scorsa, con brani come Diluvio ed Invocazione, lo sconosciuto complesso di Busto Arsizio metteva in musica la Fine del Mondo meglio di tanti artisti dell’epoca ben più noti, oggi viene voglia di indagare cosa succede dopo questa Fine, dopo il Giudizio. In particolare, cerchiamo tracce dei destini dei giudicati. Dei condannati, insomma. Nell’Aldilà. Certo che da italiani una pista ghiotta ce la offre la nostra letteratura nazionale. Grazie ad un esploratore d’eccezione del Paradiso e dell’Inferno: il Sommo Poeta Dante Alighieri. Proviamo allora innanzitutto a seguire le sue tracce. Chissà che non ci portino da qualche parte.

Nel 1970 i tropicalisti brasiliani Os Mutantes pubblicarono un album intitolato A Divina Comédia ou Ando Meio Desligado. In italiano: La Divina Commedia, ovvero sono un po’ disconnesso. Ebbene sì, sempre alla ricerca di musica nuova, in passato mi sono spinto pure da quelle parti, il Brasile tropicalista. Non proprio Ratamahatta che già sarebbe tanta roba. Ma almeno l’album del 1974 di/degli Assim Assado era una bella chicca psych ai più sconosciuta. Gli Os Mutantes no, celebri, influentissimi, ma niente di più lontano dal nostro mondo. Però avevo almeno due ragioni, tutte legate al concept dantesco, per studiarmelo comunque. La prima, una splendida copertina, cupa come un fermo immagine di un film di Zé do Caixão, ispirata a una notissima illustrazione di Gustav Doré che rappresenta proprio uno degli incontri del Sommo Poeta durante il suo viaggio agli Inferi. Se ci pensate, gli Os Mutantes son stati tra i primi (se non forse i primi in assoluto) a prendere le grafiche dall’opera dell’artista ottocentesco e sbatterle in copertina. Prima sicuro degli Emperor (la Morte a cavallo sulla copertina dell’Ep omonimo). Seconda ragione, un brano come Ave Lúcifer ed il suo testo (“È Lucifero della foresta/Chi cerca di abbracciarmi”, “Porta l’uva nera/Porta feste e fiori/Porta corpi e dolore/Porta incenso e odori/Ma portami Lucifero/Su un vassoio per me”). Succulento. Però gli Os Mutantes sono/erano brasiliani e Doré francese, mentre noi qui cerchiamo ancora una volta di addentrarci nel lato oscuro degli anni ’70, sì, ma italiani. Ecco quindi che dovremmo concentrare le nostre energie e non disperderle la ricerca fuori dai nostri confini. Ne convengo.

Una prima pista nazionale parte però ancora dall’estero, precisamente dall’Inghilterra. Dove nel 1966 comincia la sua attività un complesso composto dal bassista Wegg Andersen, dal chitarrista Bill Gray (già collaboratore di Eric Clapton), dal batterista Ian Broad e dal secondo chitarrista Ritchie Blackmore. Quello lì. I Trips, questo il nome del complesso, sempre nel 1966 si trasferiscono in Italia per fare da backing band di Ricky Maiocchi dei Camaleonti. Poi si mettono in proprio e due membri se ne vanno: Ritchie Blackmore (sappiamo benissimo per far cosa) e Ian Broad. Li sostituiscono due italiani, Pino Simone e Joe Vescovi, quest’ultimo alle tastiere. Il nuovo complesso si ribattezza The Trip e arriva a pubblicare un album tardo beat, omonimo, proprio nel 1970, l’anno dell’album dantesco degli Os Mutantes. Ma è nell’anno successivo, quindi nel 1971, che pubblicheranno l’album dalla forma definitivamente prog intitolato Caronte. E anche questo con un’opera di Gustav Doré in copertina. O per lo meno una sua reinterpretazione. I The Trip, pure se cantando in inglese e mezzi inglesi pure loro, sono forse il primo esempio importante di complesso prog nostrano a cimentarsi col lascito letterario dell’illustre concittadino del Belardi. Anche se in fondo si tratta poco più che di un espediente grafico, per occuparsi poi, piuttosto che di letteratura, delle vite di alcuni illustri dannati. Così, tra un tributo a Janis Joplin e uno a Jimi Hendrix, Caronte, che resta un album importantissimo per la nascita e l’evoluzione del suono progressivo italico, in fondo rivela di essere ancora in parte legato agli anni ’60, di avere forse poco di peculiarmente italiano nel suono e di avere praticamente nulla di oscuro. Disco bello e fondamentale, ma purtroppo non ci porta molto lontano nella nostra ricerca. Conviene allora non occuparci ulteriormente di loro. Guardiamo e passiamo oltre.

Quando vennero a suonare a Pontecorvo, dopo poco l’uscita di Inferno, allestirono uno spettacolo con candelabri, bracieri e costumi vari. Il parroco dopo pochi minuti interruppe il concerto considerando il tutto come opera del demonio. Altri tempi….

Questa citazione la rubo, come tante altre informazioni, dal blog John’s Classic Rock. È il commento di un lettore, tale Andy, riguardo ai Metamorfosi, complesso romano guidato dal cantante Jimmy Spitaleri e inizialmente coinvolto nel giro della Messa Beat. Nel ’72 pubblicò il primo album, …E Fu il Sesto Giorno, acerbo, divertente, ma ancora fortemente centrato su un certo misticismo cattolico un po’ troppo ye-ye (su Spotify non lo trovate attribuito ai Metamorfosi, ma allo stesso Jimmy Spitaleri). L’aria da chierichetti i Metamorfosi, orfani di chitarra, se la scrolleranno definitivamente di dosso l’anno successivo, con l’uscita del secondo album, il dantesco Inferno. Graficamente non abbiamo un furto da Doré, questa volta. Piuttosto una grafica fredda, inquietante, un’interpretazione molto anni ’70 dell’Inferno, metafisica. L’ascolto è obbligato (questo qui su Spotify è invece attribuito al bassista Roberto Turbitosi, vai a capire perché). Se mettiamo da parte per un secondo i giganti del prog italiano, quelli che hanno ottenuto più successo e meritatamente, Inferno rimane comunque uno degli album più coesi e riusciti del fenomeno. Testualmente, seguire le orme del viaggio nell’Aldilà del poeta fiorentino offre l’occasione anche di aggiornare il campionario dei peccatori (entrano razzisti, spacciatori, politicanti). Invece non c’è granché fascinazione per il Male occulto (manco nell’opera del Poeta, direte voi). Caronte e Lucifero in persona vengono pure evocati, appaiono nella narrazione, ma non si cede manco un secondo nella tentazione di passare dall’altra parte. Cosa che invece capitava agli Os Mutantes. Musicalmente, almeno? Nemmeno. Inferno ha i suoi momenti più cupi e tesi, non è affatto un disco sereno, ottimista. Ma non è heavy. Manco in senso lato. Così non riusciamo in realtà ad unirlo ad un ipotetico albero geologico italiano della “musica del Giorno del Giudizio” (se non “del Demonio”), quella che piace a noi, insomma. Peccato, se pensate al commento del tale Andy riportato sopra. Anche perché Wikipedia riporta altre informazioni circa il periodo di Inferno:

Particolarmente ricercata, infine, anche la rappresentazione dell’album nei concerti dal vivo. Il gruppo si presenta sul palco indossando costumi che incarnano i vizi dell’uomo. In particolare il cantante, vestito con una tunica rossa recante una croce bianca sul petto, evoca con forte presenza scenica il sommo poeta, il quale alla fine del concerto viene giustiziato sulla sedia elettrica al cospetto di prete e soldati.

Praticamente, parrebbe quasi che Alice Cooper abbia rubato il mestiere a Spitaleri. Ma leggete questa qui, ancora più succulenta:

In questo periodo il gruppo ha più volte dichiarato di essere fortemente satanista.

Non sto nemmeno a dirvi quanto abbia cercato riscontro di questa ultima affermazione sul web. Niente, nessuna conferma, nessun commento, nessun estratto di giornale. La voce di Wikipedia non riporta alcuna fonte e, manco analizzando troppo, è chiaro come non sia particolarmente scientifica o neutrale. Pare quasi a tratti un comunicato stampa autocelebrativo. Magari chi ha scritto è direttamente coinvolto, così pare. Ora mi appello a chi legge (si sa mai che mi riesca): se ne sapete di più, aiutateci a vederci chiaro commentando in fondo al pezzo.

Però purtroppo nemmeno questo indizio basta affatto, senza prove e senza suoni adeguati. Così abbandoniamo quest’altra pista, ché non ci stava portando veramente dove vogliamo arrivare noi. Di uscire a rimirare le stelle non abbiamo comunque ancora voglia, per cui non seguiamo ulteriormente i Metamorfosi, che poi nel 2004 hanno poi inciso un album dal titolo Paradiso. E lo so che nel titolo di questo pezzo ho messo sullo stesso piano il Paradiso e l’Inferno, ma siamo sinceri: sin dai tempi delle scuole superiori, a chi interessavano veramente i Canti celestiali del primo al confronto con le nefandezze e le urla disperate del secondo?

E niente. Abbiamo capito che era tutta una mossa e che del Paradiso e dei virtuosi che lo popolano in fondo non ci interessava molto già dall’inizio. Cercavamo tracce di musica in grado di evocare bolge infernali, e seguendo le piste più battute della nostra discografia progressive non ne abbiamo trovate. Ci tocca allora da un lato abbandonare la pista del poeta toscano, dall’altra scavare più a fondo ancora e scendere nel sottosuolo più esoterico. Fortuna che un Virgilio virtuale ce l’abbiamo: è l’account YouTube di Massimiliano Bruno, uno dei due autori del libro Terzo Grado, indagine sul pop progressivo italiano che abbiamo già citato la volta scorsa. Nel suo account, Bruno diffonde pezzi di vera archeologia, una quantità infinita di singoli rarissimi, spesso di complessi che non hanno combinato altro che quei pochi minuti su vinile. Lydia e gli Hellua Xenium li ha messi lui, su YouTube, sennò forse quelle canzoni le conoscevano in 10 (ora, se non 100, saremo 1.000). Ci trovate anche diverse altre chicche, ad avere la pazienza. Beat, progressive, qualcosina proto-hard rock (come i notevoli forlivesi Forum Livii), lounge, elettronica primordiale. Occhio, anche qualche 45 giri di sconosciute band metal anni ’80 italiane. Ma questi non rientrano nel nostro raggio d’azione, oggi. Come invece già potrebbero i demoniaci Invisible Force, ensemble dalla paternità attribuita a Bartoccetti (che continua ad aleggiare inquieto su queste pagine) e proprio con Fiamma Dallo Spirito alla voce. Su loro ci torniamo magari un’altra volta. Oppure tipo i Paradiso di Robot, col brano omonimo, che sì hanno il paradiso nel nome, ma cantano di passeggiate nei cimiteri e nell’arrangiamento ti fanno pensare che sapessero benissimo chi erano i satanici Black Widow (viene proprio, a inizio brano, di mettersi a cantare “I conjure thee, I conjure thee, I conjure thee, I conjure thee appear”). C’è un’altra chicca, Danza degli Spettri di tale Avos (credo il personaggio inquietante che campeggia in copertina), sorta di danza, appunto, cantata da fantasmi, brano disco-swing dai sintetizzatori inquietanti e sinistri. Tra i commenti al video della canzone, qualcono lo riconosce come musicista impegnato con una propria orchestra a suonare liscio, a Piacenza ed in quegli anni. Pensate, un musicista di liscio in fissa con l’evocare gli spettri dell’Aldilà. Sarebbe da farne un soggetto e mandarlo a Pupi Avati.

Tra le gemme della discoteca di Bruno troviamo pure un 45 giri attribuito a tali Scorpyo, del 1977. Il titolo: Destinazione Infinito/ Visioni. Uscito nel 1977, dicevo, ma forse è ora che scopra finalmente le mie carte e ve la racconti tutta. Negli Scorpyo ci suonava Gianni Gavini, voce e chitarra, che abbiamo già incontrato negli Hellua Xenium. Ma poi, da testimonianze sparse reperibili su internet, scopriamo anche che questi due brani non sono stati suonati nemmeno dagli Scorpyo, nel ’77, anno di uscita del singolo, ma da un complesso chiamato Corte dei Miracoli (niente in comune con gli omonimi savonesi), sempre capitanato dallo stesso Gavini, intorno al ’74/’75, subito dopo l’esperienza con Lydia. Inoltre, i due brani sarebbero anche essi farina del sacco della coppia Lattuada/Prandoni. Bene, non vi stupirà quindi la continuità tra questa musica e quella della formazione che già ci ha stupito lo scorso volume, nonostante, a parte il solo Gavini, non ci sia un musicista in comune tra le due formazioni. Visto che si tratta di emeriti sconosciuti, anche questa volta ne riportiamo i nomi, al solito traendo informazioni dai siti Italian Prog e John’s Classic Rock:

  • Piero Giavini (chitarra, voce)
  • Chicco Conti (tastiere)
  • Piero Caccia (mini-moog)
  • Gigi Pariani (sax)
  • Alfredo Pagani (basso)
  • Mauro “Bobo” Salmoiraghi (batteria)

Giavini sarebbe quindi il responsabile in toto delle parti vocali, questa volta, ed ecco che riusciamo a far risalire a lui i falsetti di Diluvio e Invocazione, della band precedente. Ma insomma, vi starete chiedendo: dopo tutta questa menata su Paradiso e (soprattutto) Inferno, Dante, Caronte e persino il tropicalismo brasiliano, tiriamo fuori gli avanzi del capitolo precedente? Abbiamo delle buone ragioni. Anche se in questi due brani di citazioni dantesche non ce ne sono. Perché invece le atmosfere sono incredibilmente (per quegli anni) macabre ed i testi di una visionarietà quasi morbosa. Raccontano viaggi in dimensioni altre, oscure, quasi a porsi in continuità con certi viaggi, letterari, che appartengono a tradizioni mistiche trasversali di epoche antiche. Visioni, quelle del duo Lattuada/Prandoni, in questo caso non riconducibili dichiaratamente ad una matrice solo cattolica o cristiana. In fondo, però, si parla sempre della realtà contemporanea. Un esempio?

Ho visto teschi penzolare dai raggi della luna
E lussuriosi insetti brulicare sulla terra
In scatole di latta e di cemento
Che vomitavan odio, odio e veleno

Ho visto le ossa dei profeti buttate in pasto ai cani
In orge ripugnanti con sguaiati e osceni canti
Bastanti da infettare la mente e il cuore
A chi credeva ancora, forse, all’amore

Ho visto assurdi manichini dipinti e profumati
E macchine di carne dentro gabbie luccicanti
Ma i prati a primavera erano spogli
E il puzzo della morte sempre più forte

Questa era Visioni, una cavalcata apocalittica che, volendo farla semplice, può essere ricondotta musicalmente alla formula un terzo Uriah Heep, un terzo Hawkwind, un terzo Cugini di Campagna. Sì, beh, Giavini questa se la canta tutta in falsetto. La cosa può pure strappare qualche risata, ma il pezzo è solido, tastiere e chitarre moderni, per l’epoca, basso sotto ad incalzare e un batterista che mena, mena parecchio. Registrata bene, poi quello che sentiamo oggi è una take direttamente dal vinile (si sentono gli schioppettii), per cui niente rimasterizzazione, spiacente.

Il lato A era poi Destinazione Infinito, in cui Giavini canta con voce piena (e meno male). Il brano è più elaborato e sembra anch’esso seguire, con una struttura ciclica, un viaggio mistico lungo una vita, o un’eternità, tra altre visioni angoscianti e mondi e stelle che paiono gironi infernali, più che sfere celesti.

Pianeti abitati da sogni affascinanti
Che mi sorridevano invitanti

Ma quando tendevo la mano per sfiorarli
Si tramutavano in mostri orripilanti

Musicalmente, gli Scorpyo/Corte dei Miracoli paiono andare oltre gli Hellua Xenium di Lydia. Basso e batteria restituiscono il Caos, l’organo resta costantemente funebre. Soprattutto la chitarra elettrica di Giavini è spessa e selvaggia, al minuto 1:13 e poi al minuto 2:47, come non se ne sentivano in Italia. Strumentalmente, pare quasi di essere al cospetto degli Amon Düül più ispirati, ma il cantato riporta tutto in una dimensione parecchio italiana. Ed è sorprendente, vi dico, in senso positivo. Siamo ben fuori da una dimensione prog tradizionale. Lydia e gli Hellua Xenium e gli Scorpyo/Corte dei Miracoli sono stati una scintilla luminosa, sebbene oscura, nella storia della musica italiana. Scintilla forse troppo debole per far partire una scena, un movimento alternativo, di rock pesante, elettrico, cupo, visionario, millenaristico, meno interessato all’autocompiacimento ed alle citazioni culturali. Più in vena invece di mettere in musica una mistica religiosa, ma macabra, angosciante. Di parlare dell’Aldilà cui siamo destinati. E forse di visitarlo, in anticipo. Traghettate da chitarre ed ampli, più che da Caronte stesso.

Gli Scorpyo non hanno prodotto altro. Nemmeno questo 45, in realtà. La Corte dei Miracoli, quella di Giavini, già aveva smesso di esistere, nel ’77. Lo stesso Giavini forse si è poi dedicato ad altro, non mi risulta abbia pubblicato altre gemme oscure. Lattuada e Prandoni poi si saranno concentrati sulle loro carriere più tradizionali. Dei due, insieme, ho trovato la firma solo sul lato B di un singolo italodisco, anch’esso del ’77. Voleste approfondire, il brano si intitola Bluebird Fly, l’interprete Holiday Sound. Giusto per la cronaca. Scusate se mi ripeto, ma pensate però se da questi due gruppi fosse venuto fuori un album intero. Che Inferno sarebbe stato… (Lorenzo Centini)

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