L’angolo del raw black metal: CAVEGHOUL, NIGHTWAR
Terzo album per il solo project americano CAVEGHOUL, da Fort Wayne, Indiana. Il tipo ha in piedi svariati altri gruppi, da solo o in compagnia; tra i migliori ci sono di sicuro questo in esame, poi i Nebulous of Blood (dalla discografia già nutrita in soli tre anni di attività) e i Caustic Grave Wind, il cui album di debutto Under the Heat of a Malevolent Sun è una mazzata di rara intensità, uscito un paio di anni or sono e sicuramente valevole di un recupero se ve lo siete perso, cosa molto probabile. Until the Light May Take Me è un disco più meditato, se mi si consente il termine, di una violenza che spesso cova sotto la cenere e a tratti esplode, ma senza episodi piroclastici distruttivamente spettacolari; la malignità delle composizioni è più subdola e sottile, s’insinua in ciò che è sano, lo corrompe e lo fa marcire.
I primi due pezzi sono abbastanza brevi (ma March of the Ghoul è parificabile ad una intro), mentre da Drowning in the Sands of Time (14 minuti) in poi non si scende al di sotto dei dieci minuti di durata, con brani complessi, multiformi, in grado di abbracciare molteplici sfumature e proporre cambi di ambientazione più e più volte nel corso dello stesso episodio, anche se i riff portanti sono abbastanza pochi. Per citarne uno per tutti, lo stacco a circa un terzo della succitata lunghissima Drowning in the Sands of Time è purissimo death/doom marcio anni ’90, e la coda del pezzo è 100% Summoning, ma il ragazzo divaga spesso in direzioni distanti da quello che si può definire raw black metal sic et simpliciter. Molte tastiere di ispirazione dungeon synth albergano spesso in secondo piano nelle composizioni, tutte da scoprire ed apprezzare; sono piccoli universi multiformi ispirati ora da questo ora da quell’elemento del passato, ma il tutto è rivisto in ottica talmente personale da rendere quasi impossibile trovare un unico termine di paragone che ne descriva la musica sinteticamente. Se non è un pregio questo… Edizione fisica in cassetta per la nostrana Canti Eretici, naturalmente limitata a poche copie, credo 66.
In Russia è emerso in giugno il progetto solista di tale Blackwraith, polistrumentista che suona tutti gli strumenti per i fatti suoi e che si è anche prodotto il disco. Sto parlando dei NIGHTWAR, di cui In the Land of Endless Frost è l’opera di debutto (dopo due demo, il secondo dei quali qui riproposto nella sua totalità). Con sette brani per 46 minuti di musica con le palle fumanti, il suo è un black metal fortemente influenzato dai mostri sacri del passato. Più Judas Iscariot che DarkThrone però, e tutti cedono il passo quando il riffing sulle note più alte, vorticoso come il vento siberiano, riesuma certi capolavori del calibro di Dark Waters Stir. Così come lo cedono quando, specialmente negli arpeggi lenti, si riporta in auge l’ancora vivido ricordo di un certo disco dalla copertina blu uscito in Norvegia sotto il vessillo Mayhem.
È vero, il ragazzo non inventa nulla, ma nelle sue composizioni mette una carica emotiva talmente evidente da commuovere, un ardore e una passione che smuoverebbero una montagna. Peccato che non sia un po’ più bravo alla voce, altrimenti qui si correrebbe il rischio di dover parlare di un esordio epocale, giacché i russi (Grima primi tra tutti, ma anche Spell of Dark, Elderwind, Malist) hanno pochi rivali nel creare melodie fredde come uno dei loro inverni. Solo voce, chitarra, basso e batteria; niente tastiere (quei suoni che potrebbero sembrarle sono in realtà una traccia di chitarra con effetto riverbero al massimo del gain), niente divagazioni elettroniche, nessuna evoluzione di un suono già perfetto così se è questo il tipo di black metal che si vuole suonare. I paletti innegabilmente ci sono, e se si esce da essi si può sempre suonare black metal, ma in una versione differente. Quello dei Nightwar è true old style black metal ed è pure fatto benissimo. (Griffar)


