Crooning, spleen e black metal: HEXVESSEL – Polar Veil
Gli Hexvessel sono l’altra creatura stabile guidata da Mat McNerney, il gentiluomo inglese che fa base in Finlandia e che abbiamo incontrato davvero pochissimo fa recensendo il suo altro gruppo, i Grave Pleasures. Se il percorso di questi ultimi è in fondo piuttosto lineare, quello degli Hexvessel è invece eterogeneo e vive di scarti e cambi di registro. Così io, che li avevo conosciuti ed amati col menhir folk doom di No Holier Temple (2012), avevo digerito male la svolta del successivo When we are Death, psichedelico e sessantiano ma per me sciatto, con una leggerezza imperdonabile. Era il 2016 e, visti dal vivo quell’anno al Roadburn, nell’elegante Patronaat, avevo deciso di metterci una pietra sopra. Così mi sono perso quasi del tutto i due dischi successivi, temendo persistessero sulla stessa strada. Recuperati solo successivamente, erano sì migliori dell’album del 2016, ma non abbastanza da farmi riappropriare di una band che avevo seguito con entusiasmo.
Invece questo Polar Veil merita, merita di suo e riaccende l’attenzione su quel nome. Stranamente, con uno scarto nettissimo e modificando il suono in maniera imprevedibile. Chissà, forse pure irreversibile. E per certi versi originale, anche se la nuova veste, di suo, non lo sarebbe affatto. In sostanza McKerney stavolta ha attaccato la corrente elettrica a tutte le chitarre. E fin qui ok. La cosa strana è la maniera di suonarle. Zanzarose, notturne, gelide. In poche parole: black metal. Molto black metal. Invece è praticamente quasi bandito ogni strumento acustico, stavolta, mentre la voce resta pulita, da crooner. Ne viene fuori un insieme davvero poco definibile e inizialmente straniante. Ma ascoltandolo più volte, entrandoci in confidenza, stranamente funziona, funziona bene. Così si parte con The Tundra is Awake, che nel suono pare quasi una creazione di quelle che un noto cantautore norvegese ha tirato fuori appena uscito di gattabuia, per dei noti problemi legali. Ma l’intento poi è diversissimo e il pezzo è una ballad invernale, mesta. Luce non ce n’è, il tendaggio sonoro zanzaroso serve proprio a stendere un manto nero su tutto il disco. E la cosa funziona, come dicevo. Anche nel caso di quel singolo improbabile che è Older Than Gods, che parte fieramente vichinga, ma poi rivela essere puro spleen morriseyano. Anche se con le chitarre algide. Anche se col controcanto marziale di KzR dei Bølzer. A proposito di Bølzer, quanto ancora dobbiamo aspettare?

È un disco strano, Polar Veil. Funziona, ma quella strana sensazione non te la togli dall’ascolto. Anche se gira bene. A dire il vero, la formula che prevede la forma canzone, un suono che si rifà a quei 5 o 6 gruppi classici norvegesi e voci pulite e malinconiche è stato quasi abusato, di recente e con risultati più o meno buoni, da Myrkur e dalle sue simili. Non solo è la prima volta che però la sento applicare da un artista uomo. In questo caso qui, quello degli Hexvessel, la canzone poi non è solo forma. È la forma ultima, tutto quel coagulo gelido di suoni cristallizza alcuni brani eccellenti, che poi sarebbero compiuti anche con un’altra veste. Certo, sarebbero diversi. Così una Eternal Meadow, che parte persino col blast beat, rivela essere una canzone goth rock mascherata e si conclude con una declamazione drammatica e drammaticamente melodica. Fosse arrangiata diversamente e ce la trovassimo sull’altro tavolo, quello dei Grave Pleasures, non avremmo alcun problema ad accettarla. Così come la stessa Older Than The Gods, citata prima.
Ma se la musica funziona, e a tratti emoziona anche, molto più che nel resto della discografia post No Holier Temple, non va via del tutto quella strana sensazione che dicevo prima. Credo abbia a che fare col fatto che, personalmente, trovo sempre più faticoso definire l’entità e la musica degli Hexvessel. Non che questo sia per forza un problema, chiaro. Anzi. (Lorenzo Centini)
