Suoni oscuri sotto i loggiati di San Pietro: HANDS OF ORLAC – Hebetudo Mentis
L’altro giorno ho inopinatamente, per la prima volta in vita mia, enunciato a voce alta il nome di una nota band di origine pesarese nel corso di una conversazione. Poco dopo, mentre andavo a prendere un gelato, un piccione mi ha insozzato. Fortunatamente la deiezione non ha centrato il cono, ma la mia vecchia maglietta del primo album del Teatro degli Orrori. Era un avvertimento. Oppure è solo superstizione. Può darsi. Comunque questa superstizione ha un po’ fatto la fortuna (sic) di tutto quel suono ricondotto semplicisticamente sotto la definizione di italian dark sound. Per lo meno da noi. All’estero non credo siano al corrente delle storielle (e delle malignità, a volte) che circolano qui, e anzi c’è chi si appassiona a questa idea di suono perché “così italiana”. Quasi come fosse una Lambretta. Tipo quel ragazzo francese che il Masticatore si era portato appresso al Metal Conquest. Che gli Hands of Orlac, romani per lo meno in partenza, riescano a capitalizzare l’eredità di quel piccolo numero di esperienze nostrane del decennio ’80 nella lontana Svezia sorprende e non sorprende. Comunque non è che siano fermi a quei due o tre stilemi. Per dire, il precedente Figli del Crepuscolo era principalmente un disco di metal heavy e piuttosto classico. D’altronde all’epoca la formazione, messa in piedi dai due fondatori The Templar e The Sorceress, era per i restanti tre quinti scandinava. C’erano dentro pure il chitarrista degli Hällas e l’ex chitarrista dei nostri beniamini Portrait. Stavolta la chitarra è una sola e la formazione è tornata in maggioranza italiana, anche se dietro le pelli c’è Axel Johannson, che al momento offre i suoi servigi ad altre due band nostre beniamine, i finlandesi Chevalier e gli slovacchi Malokarpatan.

Hebetudo Mentis pare un po’ un ritorno a casa, quindi. Anche per quei loggiati di San Pietro in copertina, pure il suono e le ritmiche sembrano “retrocesse”, tornate al livello più grezzo degli ’80 minori de noantri. Non solo, però. Abbandonando stavolta, oltre al turgore, anche le strutture del metallo più o meno NWOBHM, diventa più intelligibile un approccio di matrice progressiva. Un po’ come nel caso degli Arpia e dello splendido De Lusioni (Anno Domini 1987), secondo chi scrive forse l’episodio migliore di quel sottobosco metal occulto del Bel Paese. Che poi erano di Roma pure loro. Inoltre, essendo un confronto banale, ma naturale, visti generi contigui, voci femminili e flauti, Hebetudo Mentis io lo preferisco nettamente a The Old Ways Remain dei Blood Ceremony. C’è più oscurità, più sviluppo. I The Hands of Orlac non inventano nulla, ma proprio nulla, e non sono neppure particolarmente dotati, né come complesso, né come singoli; però, come onesti e laboriosi interpreti di maniera, tirano comunque fuori un album che vale la pena approfondire se dopo il primo ascolto non vi ha convinti del tutto, come successo al sottoscritto. Perché comunque entrando in sintonia l’ascolto acquista corpo. Vette il “singolo” Frostbite, con persino una punta di Jefferson Airplane, e l’unica cantata in italiano, Il Velo Insanguinato, acerba ma piuttosto avvincente. (Lorenzo Centini)
