La finestra sul porcile: HELLRAISER 2022

La prima volta che vidi Hellraiser avevo undici o dodici anni, era una di quelle serate estive passate ad attendere Notte Horror su Italia 1 e ricordo che mi cacai letteralmente addosso dalla paura. Pochi film restituivano allo spettatore quella sensazione di disgusto, squallore e, soprattutto, dolore, più di quanto facesse (e fa ancora, nonostante sia invecchiato maluccio sotto alcuni punti di vista) il primo film di Clive Barker. Perché Hellraiser ti entrava nelle carni proprio come i ganci che dilaniavano le vittime, e quel dolore te lo faceva sentire fino alla fine. Rivisto da grande e rileggendo il racconto da cui è tratto, Hellraiser è una storia in cui il dolore fisico è metafora di un’angoscia esistenziale, popolata da personaggi già morti che tentano di riempire il buco aperto da noia e apatia; magari a undici anni non ci fai troppo caso, perché nella testa ti rimangono di più i brandelli di carne putrefatta che punteggiano il pavimento della famosa stanza di zio Frank. Da lì in poi uscirono una vagonata di sequel, ma, personalmente, ho smesso di interessarmi alla saga dopo il terzo film e non ricordo nemmeno di aver visto il quarto.

Barker aveva cominciato a pensare seriamente a un reboot della serie già nel 2006 e, nelle fasi di pre-produzione, il progetto era passato prima ad Alexandre Bustillo e Julien Maury, reduci dal successo di À l’intérieur, e poi a Pascal Laugier. E qui, visto il finale dell’Hellraiser 2022, mi viene il sospetto che fosse la scelta giusta ma con i tempi sbagliati. Alla fine il progetto definitivo è finito nelle mani di David Bruckner, uno che, fino a lì, aveva girato tre segmenti in altrettanti film antologici, un corto e poi aveva esordito con The Ritual, opera snobbata (quando non stroncata) da più parti ma che a me, vi dirò, tutto sommato era piaciuta.

Arriviamo quindi al 2022, quando il nuovo Hellraiser esce direttamente in streaming senza passare per il cinema, come del resto è avvenuto per tutti i capitoli della saga da Hellraiser 5: Inferno ad oggi. Chi temeva scenari nefasti può rilassarsi: non siamo di fronte al capolavoro che rivoluzionerà la storia del cinema horror ma non siamo nemmeno sui livelli dei recenti reboot delle saghe di Halloween (in questo caso dovremmo parlare di sequel diretto, ma sempre una trascurabile scemenza rimane) e Leatherface. Semmai siamo più vicini ai territori del recente Evil Dead, in cui la storia prende le mosse dal primo film ma se ne va per strade tutte sue. L’idea di fondo non è neanche malvagia: c’è questa ragazza, Riley, ex tossica che tenta di ripulirsi, che vive a casa col fratello – ovviamente gay – e il di lui compagno ma nel frattempo, per sopperire all’assenza delle metanfetamine, si infila in relazioni da una trombata e via con bellocci borderline del quartiere. Tra questi Trevor, che la convincerà a rubare una cassa in un container che si rivelerà contenere solo il famoso cubo di Lemarchand con tutte le conseguenze del caso. Fin qui il motore di una trama che si dipanerà alla ricerca del miliardario Roland Voight che, ad inizio film, aveva risolto (o meglio, fatto risolvere) il cubo. Insomma, siamo su binari ben diversi rispetto all’originale e simili ad un qualsiasi horror uscito negli ultimi 25 anni in cui il protagonista cerca di sciogliere enigmi riuscendo a comprendere ed interpretare frasi ed illustrazioni a caso, trovate in libri provvidenziali sparsi in abitazioni che evidentemente Google Maps segnala come “casa in cui vengono dettagliatamente spiegati tutti i misteri”.

Detto questo, il film ha comunque un buon ritmo nonostante la durata spropositata, la mano di Bruckner si vede soprattutto nelle sequenze notturne (ovvero quasi tutta la pellicola) e i personaggi, pur essendo poco più che macchiette stereotipate in versione anni ’20 (il gay risoluto ma pronto a perdonare, il compagno premuroso ed eroico, la coinquilina freakettona mezza scema e il palestrato che si rivelerà particolarmente idiota) riescono a non farsi odiare fin dal principio. Soprattutto la protagonista che, almeno, ha un vissuto personale sensato ed ha la faccia giusta di Odessa A’zion. E i Cenobiti? Ecco, qui, il mio è un no. Pinhead effemminata non ha nulla di oltraggioso al Pinhead di Doug Bradley, se non altro perché molto più fedele a quello del racconto originale (anche se la voce rimane inspiegabilmente cavernosa), ma la resa finale perde fragorosamente il confronto con quelli dell’87. Gli attuali sembrano quasi dei Funko Pop e non trasmettono davvero nulla. Perché poi, alla fin fine, quello che mi aspettavo da un nuovo Hellraiser presentato in pompa magna e benedetto dallo stesso Barker era proprio quella sensazione di sofferenza fisica che i primi Cenobiti ti facevano provare già solo guardandoli. Ecco, parafrasando il commento di Ciccio Russo su un vecchio disco dei Deicide, il nuovo Hellraiser non è da buttar via se ci si dimentica del contesto. Il problema è che non riesco a sentire il dolore. (Matteo Ferri)

2 commenti

  • Avatar di Sam

    Effettivamente, Pinhead versione femminile c’entra niente. Solita trovata alla girls power, con il gay per fare contenti i gruppi lgbtqiasertfghbvdr (e qui Barker essendo gay, gioca in casa) e frivolezze varie (che triste però un mondo dove l’arte deve piegarsi alla politica alterando personaggi e/o narrazione per rispettare dettami che vengono da centri di potere).
    Poi i cenobiti infilzati con aghi intestati con perline, fanno ridere! Un Pinhead con la faccia perlinata che sembra uscito più che da un inferno, da un centro di piercing impazzito.
    La storia non è malaccio ma edulcorata e allungata.
    E soffre dei problemi della maggior parte degli horror moderni: il male sembra sempre qualcosa di distante che colpisce dei malcapitati ingenui (e stupidi) quando non candidi e innocentissimi. Produzioni a prezzi stellari che non riescono minimamente a restituire l’effetto di produzioni datate e low budget perché indirizzano male il colpo in un ambiente fin troppo perfetto ai fini del film.
    Nel caso di Hellraiser, i primi film trasmettevano quel concetto di perversione marcescente addirittura volgare nel suo mostrare corpi dilaniati, spellati (quindi mostrandosi svestiti persino della pelle a mostrare quanto sia fine lo strato che divide l’apparenza dalla cruda realtà) e quasi in estasi di piacere per la sofferenza. Davano subito l’idea di come individui malvagi venuti dall’inferno (ma non per forza, visto che ci viene detto ma l’inferno lo vediamo quasi mai), divenuti demoni distorcendo e piegando la loro natura umana nella ricerca incessante di un piacere e una felicità irraggiungibili, traganno poi la loro linfa vitale proprio dalla sofferenza e tortura di altri a cui infliggono le loro stesse raccapriccianti esperienze di dolore in una sorta di orgia di corpi, carne e sangue. Una figura allegorica forte per dipingere chi, avendone potere e nascondendo in sé un mostro, trae godimento dal giocare con la vita e la morte di altri, i quali alla fine addirittura godono assuefatti da una situazione che riconoscono come inevitabile e familiare.
    Alla fine il mostro siamo noi. Non esseri infernali con la barriera corallina in faccia.
    E le vere profondità a cui può arrivare l’essere umano sono il vero orrore.
    Tutto il resto è farsa e propaganda Hollywoodiana che sta rovinando centinaia di film e franchise (aspettando il nuovo de “l’esorcista” sperando di poterci evitare preti e suore gay e trans tanto per…)

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