SERMON – Of Golden Verse

Scoprii un po’ per caso il primo disco dei Sermon, Birth of the Marvellous, pubblicato nel 2019. Attirato più che altro dalla copertina, che ricorda l’affascinante arte iconografica bizantina, mi scoprii ad ascoltare un disco che esprime una musica di difficile etichettatura. Oramai è molto difficile che al sottoscritto, in ambito di produzioni metal, scocchi l’amore incondizionato a prima vista. Ma questo è stato il caso. Da un lato, infatti, mi attirò sin dal primo ascolto l’eclettismo del compositore dei Sermon, di fatto una one man band, la cui vera identità è ad oggi sconosciuta e che si identifica unicamente con il nom de plume di Him, che lo rende capace di mescolare stili musicali e panorami sonori variegati, mutevoli, ma ben concepiti e interconnessi. Dall’altro, tramite qualche ricerca online, mi rendevo contro che la bellezza poetica dei testi si deve imputare tanto a una pressoché ineludibile esperienza personale dell’autore – la genesi del disco è dovuta di fatto all’apprendimento della dolorosa notizia del cancro in fase terminale diagnosticato al padre – quanto ad una sua volontaria scelta stilistica, cioè quella di basarsi, per quanto riguarda alle tematiche, all’antica (XIII secolo) “leggenda” dell’Ebreo errante e al famosissimo poema Desiderata di Max Ehrman.

In linea con la dramatis personae di Him, sull’intero progetto Sermon aleggia un’aura di mistero e pochissime sono le notizie reperibili online. L’unica cosa certa è che Birth of the Marvellous fu un fulmine a ciel sereno, come si suol dire, capace di scuotere le emozioni di ogni ascoltatore avvicinatosi al disco. Quando si confeziona un’opera di quella fattura, l’opera stessa è la notizia. Dopo qualche anno di silenzio, Of Golden Verse giunge quasi inaspettato, eccezion fatta per chi in questi anni ha pazientemente seguito le pochissime, sparute manifestazioni di Him attraverso i suoi canali social. Per quanto mi riguarda, appresi della sua uscita grazia a una interessante intervista live, svoltasi poche settimane prima della release, che potete rivedere sul canale di Heavy New York.

Come il precedente disco, anche questa seconda prova – dal titolo Of Golden Verse – acquisisce valore principalmente perché riesce a sposare una verve compositiva ispiratissima a una incisività poetica istantanea. Anche in questo secondo lavoro Him si occupa della scrittura di ogni canzone, della stesura di ogni testo, della registrazione di chitarre, tastiere e voci. Della batteria si incarica James Stuart, che conoscevo in precedenza per alcune ottime prove studio con i Vader (soprattutto Tibi et Igni e The Empire). Al basso c’è Lawrence Jenner. Come il disco precedente, Of Golden Verse splende di luce propria. Lo stile musicale è nuovamente difficilmente incasellabile, ma per sommi capi possiamo immediatamente capire come riesca a mescolare paesaggi sonori rarefatti a parti decisamente più metalliche e pesanti. Ragionando per paradigmi: la struttura delle canzoni è basata fondamentalmente sulla lezione dell’heavy prog, ma questa viene arricchita apportando caratteristiche tipiche di altri generi musicali, come i caratteristici crescendo del post rock, utilizzati per creare il contrasto sonoro già riscontrabile nelle forme più raffinate di questo genere (GYBE!).  Sebbene alcuni ravvisino suoni á la Tool, mi sembra che il tipo di effetti utilizzati nel disco lo rendano più affine alle recenti produzioni di Devin Townsend e dei Leprous, i cui suoni ipercompressi e stratificati costruiscono un vero e proprio muro sonoro nelle sezioni di riffing più asfissianti. Possiamo ipotizzare che le precedenti band siano fonte di ispirazione per Him, ma non si può dire che la musica che propone sia eccessivamente derivativa, al contrario. La caratteristica più immediatamente riconoscibile è una vera e propria versatilità musicale, che accompagna costantemente la rispettiva duttilità di Him nell’uso della sua voce e nella tessitura delle linee vocali, elementi che contribuiscono enormemente alla costruzione costante della “pienezza” musicale che contraddistingue il disco. Come il precedente Birth of the Marvellous, il disco esplora attraverso i suoni una grande varietà di emozioni e sensazioni, e le parti più tirate, che sovente esplodono successivamente in vere e proprie catarsi sonore, cedono ampio spazio a sezioni più atmosferiche, scandite da melodie più lente.

Come già avrete capito, quindi, Of Golden Verse è un disco molto dinamico, e si configura sin dal principio come un’opera ambiziosa, a parere di chi scrive leggerissimamente meno ispirata rispetto alla precedente, ma capace di momenti musicali di qualità estremamente raffinata. Al disco, quarantotto minuti in tutto, giova la bravura di Him nell’interpretare, in modo anche teatrale, ogni passaggio delle canzoni, lungo l’intero minutaggio del disco. Dall’iniziale The Great March l’ascoltatore può percepire un elemento stilistico tipico della musica dei Sermon, già presente in Birth of the Marvellous, cioè quello di utilizzare nenie vocali quasi ritualistiche, in cui si sovrappongono i vari registri vocali e le poche note di sintetizzatore o chitarra, per assemblare il mood generale della musica. Gli strumenti musicali non sono pesantemente modificati da effetti, al contrario della voce che in molti passaggi lo è in modo notevole. Royal e Light the Witch, in poco meno di undici minuti, e riassumendo bene lo stile musicale dei Sermon, alternano fasi pesanti a brevissimi stacchi melodici più leggeri.

Dal mio punto di vista, il vertice più esteticamente valido del disco lo si trova esattamente dopo. In Black è solo un interludio di un minuto che introduce i temi musicali dei due brani successivi. Chi ha familiarità con i DeadSoul Tribe, dal mio punto di vista band criminalmente sottovalutata, non faticherà a riscontrare nello stile tribaleggiante di certi passaggi di batteria di The Distance qualche affinità. A differenza di questi ultimi però, i Sermon scelgono suoni più chirurgici, tant’è che proprio in The Distance propongono uno dei riff più geniali del 2023, con la sezione melodica della chitarra che taglia, nel senso più letterale del termine, il tessuto musicale con un solo slide reiterato nelle battute ritmiche. Senescense, brano dannatamente azzeccato nella sua apparente semplicità, sembra essere il meno metallico del disco. È costruito fondamentalmente sulla voce di Him, sulla stratificazione delle sue registrazioni e su una melodia di piano elettrico. Un crescendo di sei minuti sino all’esplosione finale. Wake the Silent sterza decisamente su territori più pesanti e Golden, perfetto brano da singolo, raffina il tutto forte di chitarre particolarmente contundenti perfettamente sposate con quella che mi sembra la prova più perfetta del batterista, che in questo brano sfoggia veramente il suo potenziale. Centre è un ulteriore interludio strumentale e introduce la sfuriata metallica in blast beat che apre Departure, che poi in realtà si dispiega in numerosi cambi di tempo e tema.

I Sermon, con Birth of the Marvellous, lanciarono un segnale estremamente positivo e il disco fu, almeno per chi scrive, una ventata d’aria fresca nel panorama stantio della musica estrema. Con questo secondo lavoro proseguono nel loro tragitto e, se non aggiungono niente di nuovo a quanto già detto, raffinano ulteriormente la proposta musicale, aggiustano qualcosa a livello di produzione e, comunque, ci propongono delle ottime canzoni, ben suonate ed interpretate, nella speranza che si possano ascoltare i frutti di questa maturazione in un prossimo disco. (Bartolo da Sassoferrato)

Lascia un commento