Profondità marine e mestizia rurale: OCEANLORD – Kingdom Cold

Mi piace molto la tendenza minore e trasversale, quasi narrativa, quasi cantautorale, di certo mesto doom esistenzialista. Figlio dei Warning, primi 2000, ma negli ultimi anni emerso come mood in alcune uscite: Pallbearer, Monolord, Apostle of Solitude, YOB. Ora esordiscono tre canuti australiani che rispondono al nome di Oceanlord con un disco di quaranta minuti, Kingdom Cold. Un bel disco, detto senza dubbi. Un disco minore, ma di quelli nati tali. Niente urla, toni concitati, enfasi. Niente scenografia. Un doom elementare, all’americana, fatto di canzoni dolenti. Asciutte, per quanto vagamente psichedeliche. La migliore è la seconda, 2340. L’immaginario ufficiale è legato alle profondità oceaniche, ma a me 2340 suona come una casa vuota, di legno, coperta di polvere e circondata da vegetazione spontanea. Una desolazione (consolante), un vecchio pick up con dentro ancora le cassette di Neil Young. Non so cosa ne pensiate del cantautore americano, ma lo spleen è il suo. Per lo meno quello dei suoi pezzi più elettrici.

Poi chiaro che l’anima degli Oceanlord risiede anche in altro, oltre alla mestizia rurale. Tematicamente, dicevamo, il mare torna in titoli come Siren e Isle of the Dead. Forse è la (relativa) concisione della forma-canzone adottata a limitare la possibilità di evocare distese oceaniche infinite (ed altrettanto profonde) rispetto ad esempio a quanto fanno gli Ahab. Non un difetto, solo una delle possibilità di espansione degli orizzonti di questo terzetto che, ricordiamo, è solo all’esordio, anche se è gente che dovrebbe essere navigata, vista in foto. E lo è, perché, come primo album, questo Kingdom Cold è decisamente buono. (Lorenzo Centini)

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