FOO FIGHTERS – But Here We Are
Ricordo che dopo qualche anno dalla fine dei Nirvana, probabilmente a cavallo tra il secondo e il terzo album dei Foo Fighters, mi imbattei in un’intervista in cui Dave Grohl, parlando della scomparsa di Kurt Cobain, raccontò che tutti conoscevano sue difficoltà e che all’epoca lui non riusciva neanche ad immaginare quanto l’essere il frontman di una band esponesse ancor di più le sue fragilità. Ed era anche per questo che, avendo “le spalle larghe”, aveva deciso di non restare dietro una batteria e mettersi davanti ai suoi sodali, quasi per proteggerli da quello che porta il successo.
In quell’intervista Grohl era in uno studio insieme a Taylor Hawkins, a tutti gli effetti la “seconda anima” dei Foo Fighters. Quando Hawkins è tragicamente scomparso quindici mesi fa, mi è tornata subito in mente quella dichiarazione e ho pensato a quanto potrà essere stato male Grohl, così come il resto della band.

But Here We Are ce lo racconta, in modo onesto, senza filtri e senza paura di esprimere i propri i sentimenti. Perché il nuovo album dei Foo Fighters è esattamente ciò che era lecito aspettarsi: una lunga elaborazione del lutto che parte dalla fine, dal momento in cui si torna a respirare, e va ritroso, pur esprimendo il tutto in modo estremamente vitale, coeso e urgente. Un’urgenza che non si trovava da anni in un album di Grohl e soci.
Metto le carte in tavola: non sono mai stato un grande fan dei Foo Fighters. Mi sono sempre stati simpatici, adoravo i loro vecchi video, mi piacciono molto i primi due album (soprattutto The Colour and the Shape, che contiene quel capolavoro di Everlong), ho sempre ammirato la loro vena pop, mi sono commosso durante l’addio di Letterman e apprezzo moderatamente i dischi fino al doppio In Your Honor. I lavori successivi li trovo troppo lunghi, con troppi riempitivi e anche privi di qualunque nerbo o effettiva urgenza. Ricordo giusto una manciata di pezzi degli ultimi vent’anni, mentre tutto il resto – eccezion fatta per l’ottima serie sulla registrazione dello zoppicante Sonic Highways – è scivolato subito nel dimenticatoio dopo un paio di ascolti.
Questa volta invece è come se i Foo Fighters avessero trovato nuovamente la quadra e la voglia di dire qualcosa, piuttosto che timbrare il cartellino per tornare in tour a divertirsi. Meno brani, una produzione meno patinata (nei limiti del contesto) e un’idea chiara in mente: quella di affrontare la morte del proprio compagno di viaggio.
E in questo caso non ci sono altre interpretazioni possibili.
Dopo il ritmato e orecchiabilitssimo singolo Rescued, inizio e termine di un percorso chiaramente circolare (I’m just waitin’ to be rescued, bring me back to life), si passa ad uno dei brani migliori: Under You, musicalmente vicina ai Dinosaur Jr. anni ’90, in cui comincia a farsi strada il tema dell’album, quello dell’assenza e di un modo per tornare a vivere (Someone said I’ll never see your face again /Part of me just can’t believe it’s true / Pictures of us sharing songs and cigarettes /This is how I’ll always picture you). Un tema che viene affrontato, musicalmente, con momenti di grande vitalità (Nothing at All, But We Are) e a livello concettuale, con una sorprendente onestà ed umanità.
Non è da tutti i giorni, per una band così enormemente famosa, mettersi davvero a nudo, non preoccupandosi di poter apparire sdolcinati (The Glass e Beyond Me), o addirittura di estendere questo processo a una parte della propria famiglia (la giovane Violet Grohl canta sulla buona Show Me How).

Un processo che si conclude, idealmente, con i dieci minuti di The Teacher, che inizia quasi come un brano dei Pearl Jam di mezzo e poi diventa una a dir poco catartica jam session che apre le porte alla conclusiva Rest, un vero e proprio slow-core di accettazione (Rest, you can rest now / Rest, you will be safe now) che rappresenta il preludio al ritorno alla vita dell’iniziale Rescued.
Il risultato, pur non rivoluzionando minimamente quello che sono i Foo Fighters e non raggiungendo livelli di “eccellenza” – che, del resto, i nostri non hanno mai sfiorato – è comunque davvero buono, convincente e sincero. Non c’è un brano che non rimanga in mente e, al di là delle preferenze, non ci sono veri e propri riempitivi. E, per una band così mainstream che sta in giro da quasi tre decenni (!), il fatto di aver pubblicato il loro miglior disco da vent’anni buoni a questa parte non è assolutamente cosa da poco. (L’Azzeccagarbugli)


No dai, anche qua no.
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Porta pazienza, nel pomeriggio per controbilanciare è in programma uno speciale sul black metal cileno
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Grazie.
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