Avere vent’anni: JASON BECKER – Perspective

 

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Le poche righe che sto scrivendo a proposito di Jason Becker si potrebbero riassumere con un sempiterno “è un mondo difficile”, adagio che se è vero e lapalissiano per molti mai fu più azzeccato per questo povero Cristo, tanto dotato musicalmente quanto sfortunato nella vita, ma di quelle sfighe cosmiche pesantissime che annichilirebbero chiunque. Cosa che in effetti gli è successa. Letteralmente.

Immagino sappiate chi sia Jason Becker e perché ne scrivo in questo termini, ma lasciate che vi illustri il concetto comunque: siete un enfant prodige della chitarra elettrica, un talento puro esploso giovanissimo proprio in quel momento magico, verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso, in cui i virtuosi della sei corde vendevano palate di dischi, erano fichi in culo coi capelli cotonatissimi e torme e torme di fan adoranti, sponsorizzazioni da ogni dove per chitarre ed amplificatori e, se erano pure sculati oltre ogni dire, con la concreta possibilità di finire in qualche gruppo dal nome importante, di farci dischi e relativi tour (almeno un paio), famosi e strapagati, per finire a campare di rendita per le decadi successive. Questo, tanto per dire, è successo a Steve Vai (Alcatraz, ma soprattutto David Lee Roth e Whitesnake), a Marty Friedman (Megadeth), a Zakk Wylde (Ozzy), a Vinnie Vincent (Kiss), a Randy Rhoads (Ozzy, poi però è morto), a Vinnie Moore e Steve Morse (entrambi ancora in attività con, rispettivamente, U.F.O. e Deep Purple), a Jake Lee (sempre Ozzy) e sicuramente ne dimentico qualcuno. Succederà anche a voi, avete vent’anni e il mondo è un parco dei divertimenti ai vostri piedi, siete nel bel mezzo delle registrazioni del nuovo album di David Lee Roth che vi ha scelto personalmente per sostituire niente meno che Steve Vai, i palchi di mezzo mondo vi aspettano per ricoprirvi di onori, groupies ovunque, nei camerini e nei tour bus, soldi a palate, interviste e copertine sulle riviste patinate, tutto vi gira per il verso giusto, e poi una notte vi svegliate sudati fradici mentre una gamba vi trema senza ragione apparente e, soprattutto, senza che riusciate a farla smettere in alcun modo.
Quasi trent’anni dopo dovreste essere morti da un pezzo. Lo dicevano anche i dottori, avreste avuto al massimo qualche anno, la SLA non perdona. E avete passato tanto, tanto tempo nel buio piangendo, sperando, implorando di morire. Invece siete immobili, inabili a nessun tipo di movimento che non sia il solo roteare degli occhi, attaccati a delle macchine che vi aiutano a respirare, bisognosi di cure per qualsiasi cosa, da nutrirvi a lavarvi a cambiarvi il pannolone, con le estremità gonfie per via del sangue e del fluidi corporei che non circolano bene o non circolano affatto, i muscoli completamente atrofizzati da decadi di immobilità, eppure vivi, vitali per di più, in qualche inconcepibile modo attaccati all’esistenza, pure se seppelliti nel simulacro di quello che eravate un tempo, prima che il vostro corpo diventasse la prigione definitiva, l’estremo confino della vostra volontà negata, del vostro spirito spezzato.

Siete impazziti non sapete neanche voi quante volte, resi folli dall’ineluttabilità dello scorrere del tempo, giorni come mesi, anni come eoni, immobili e vigili, costretti vostro malgrado all’esistenza in un mondo che non vi appartiene più, lontano, alieno, e che comunque ed assurdamente amate, pieno di persone che vi amano, che da trent’anni si preoccupano per voi, vi curano, vi fanno compagnia, si prodigano per voi in mille modi, che per pagare i costi delle terapie e delle macchine che vi servono per rimanere in vita hanno fatto per decenni i salti mortali (e di questo dovete ringraziare il mai troppo lodato capitalismo all’americana).

Se vi trovate una mattina dopo l’altra ad aprire gli occhi con l’assurda ed inconcepibile volontà di vivere un altro giorno è per loro, unicamente per loro, e quando ricevete fan in casa vostra, date alla stampe i vostri demo registrati a quindici anni, date il nome ad una linea di chitarre e arrivate pure a girare un video didattico con qualcun altro alla chitarra al posto vostro che mostra come suonavate la vostra musica perché volete contribuire attivamente alla vostra esistenza, non è e non può evidentemente essere per voi stessi ma per queste persone amate, per amore non della vostra vita, ma della loro, l’espressione ultima di quell’amore eroico che fa girare il mondo anche, eventualmente dovesse servire, al contrario.

Questo è Jason Becker, lo stesso che ho avuto modo di leggere tempo fa su Facebook annunciare, dovendo sottoporsi ad un piccolo intervento per problemi di respirazione e nell’eventualità non fosse sopravvissuto, che amava tutti e ringraziava per tutto. Pensateci se vi dovesse capitare di ascoltare Perspective, il primo album nella storia inciso da un malato di SLA, pensateci quando vi struggete per qualche cazzata o quando credete che la vita non valga la pena d’essere vissuta, quando siete convinti d’essere sfortunati e che l’universo ce l’abbia con voi, pensate a Jason. Pensate a chi aveva il futuro in mano e improvvisamente ha perso tutto, e che nella totale desolazione ha trovato la maniera, il modo di andare avanti, di amare quella vita che diamo per scontata, ma che scontata, cari miei, non lo è affatto. Per nessuno. (Cesare Carrozzi)

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