ANATHEMA – We’re Here Because We’re Here (Kscope)
Come dicevano i greci prima e altra bella gente – come Cartesio e Husserl – poi, bisogna essere consapevoli che della realtà non possiamo che avere un’idea soggettiva, quindi parziale e falsata. Per questo bisogna sospendere il giudizio, attuare l’epochè. È quello che mi sforzo di fare ogni volta che ascolto un nuovo album degli Anathema.
Perché mai? In parte a causa di un legame affettivo, in parte in virtù di ciò che i Cavanagh hanno rappresentato per il doom e per il metal in generale e in parte perché ho notato che la distanza tra i commenti della “critica” e quelli del “pubblico” è divenuta davvero improbabile. Sappiamo che dopo sette difficili anni il lungo inverno creativo della storica band di Liverpool è giunto ad una fine. Non ho intenzione di parlarvi dei singoli brani, di quanto la presenza di Steven Wilson alla produzione abbia contaminato l’album di sonorità “Porcupiniane” o di come si è evoluto lo stile in un senso psichedelico e ambient (che se non vi piaceva tutto ciò che è venuto da Alternative 4 in poi questo qui fareste meglio ad ignorarlo). Bensì oggi, a qualche mese di distanza dall’uscita di We’re Here Because We’re Here, vorrei capire perché le recensioni si profondono in complimenti infiniti sulla genialità dell’opera mentre “l’uomo della strada” mi dice che gli Anathema fanno sempre più schifo. Ma la gente sono pazzi?
Ovviamente la risposta è: non lo so, come diceva il platonico Antonio Lubrano alla fine di ogni sua puntata. Quindi applico la tecnica dell’epochè. A me personalmente la cosiddetta svolta alternative e sognatrice piace e la sostengo, come mi piaceva e sostenevo lo stile di prima, e mi unisco a quei recensori che hanno parlato bene di quest’ultimo lavoro, ma senza eccedere, poco poco, piano piano, come piace a noi.
Forse ora essendosi rivolti ad un pubblico potenzialmente più ampio hanno paradossalmente ristretto i loro margini di profitto. Magari mi sbaglio, ma questa scelta la si può leggere in due modi: o è frutto di una grande convinzione artistica o è sinonimo di un marketing sbagliato. O ancora, più banalmente, hanno vinto la sisalla (che per i non campani è la lotteria) e non hanno bisogno alcuno di guadagnare con la musica o forse, infine, gli si è fottuto il cervello per colpa di qualche strana religione animista. Di solito la verità sta nel mezzo (non ricordo più chi lo ha detto, le rimembranze scolastiche si esauriscono qui). Certo è che l’album poteva essere prodotto tranquillamente dalla Projekt.
Parafrasando il mio prof. del liceo: basta così per oggi ragazzi, abbiamo dimostrato che per non incappare nell’errore il metallaro deve sospendere il giudizio dubitando di tutto, dalle cose più semplici fino a quelle più complesse, tranne del fatto che sta dubitando. (Charles)
per me uno dei dischi dell’anno, e adesso attendo spasmodicamemnte il nuovo degli Agalloch
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L’album è discreto, ma di gran lunga inferiore al precedente che conteneva brani come Violence, che ti lasciava in un lago di lacrime.
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Per fortuna che pero manca anche una stracciapalle Are you there :D
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…e ma non si può sempre esser depressi a sto mondo!pure se vivi in inghilterra!
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Depressi quanto vi pare, ma il disco suona e come. Se non il disco dell’anno, di sicuro è presente in un’ipotetica Top Ten
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Disco capolavoro. Generi completamente scavalcati, molto più coerente del più bellissimo ma troppo eterogeneo precedente. Steven Wilson si sente (fin troppo) ma questo disco è straordinario, commovente, emozionante. E niente depressione questa volta, perché per quanto malinconiche le canzoni sono piene di sentimenti di ottimismo, amore, gioia. La voce di gente matura. Infine, li ho visti live a Oslo, e ho ancora i brividi.
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… del “pur” bellissimo, ovviamente…
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