LABYRINTH @Santomato Live Club, Pistoia – 19.12.2025

Foto di Marco Belardi

Era tanto tempo che non rientravo al Santomato, ma ne conservavo un buonissimo ricordo. Il locale è situato fra Pistoia e Prato, in quell’area tutta campagna che è adiacente all’agglomerato urbano di Agliana. Più che un mucchio di case, la definirei un mucchio di aziende vivaistiche.

Molto più tempo era passato dall’ultima volta che vidi i Labyrinth, se ben ricordo la quarta, forse con Pier Gonella che aveva appena raccolto lo scettro che fu di Olaf Thorsen. 

L’idea che ho dei Labyrinth è quella di aver rappresentato, assieme a Rhapsody e Domine, l’ultima epoca metallara romantica a cui abbiamo assistito. Non fraintendetemi, non sono una di quelle persone che ritengono che il mondo si sia fermato al 1999. Oggi l’Italia ha una buona scena death metal, e non soltanto quella, e ha esponenti che portano con forza il Made in Italy in giro per l’Europa e oltre l’oceano. Nonostante questo, il power metal italiano di fine anni Novanta possedeva una magia che in futuro non avrei riscontrato altrove. Questo concetto verrà implicitamente ribadito in fondo al concerto dallo stesso Roberto Tiranti, sul punto di introdurre l’esecuzione di Moonlight. Il loro cavallo da battaglia, o, per alcuni, uno dei tanti.

Labyrinth – Ph: Marco Belardi

Il pomeriggio mi ero fatto un culo come una capanna a lavoro, con indosso la maglietta di Metal Skunk e, nell’armadietto, l’attrezzatura fotografica necessaria a riprendere i momenti culminanti di un’esibizione che aspettavo da vent’anni. Per quanto fossi giunto al Santomato con le pile scariche, ho resistito per tutta la durata dei concerti con un’adrenalina in corpo che ho attribuito a una sola cosa: al fatto che all’epoca di Return to Heaven Denied io c’ero. Ascolto thrash metal e death metal vecchia scuola. Ascolto in prevalenza cose non attribuibili a Fabio Lione, a Roberto Tiranti, ai nomignoli d’arte tipo Andrew McPauls, alla doppia cassa ad elicottero e agli acuti in serie. Aver vissuto quel periodo storico cui ho accennato poco sopra, comunque sia, mi ha reso sistematicamente uno di loro. Un simpatizzante del power metal per motivi etico-affettivi. È una cosa che ha una forza incredibile, quel meraviglioso 1998. Avrei dormito per trentasei ore consecutive dopo la cena fuori del giorno precedente, e la tremenda giornata lavorativa appena conclusa: eppure non mi è scappato un solo sbadiglio, un momento di cedimento, niente di niente. Ero come drogato all’idea di rivedere un gruppo appartenente a un filone che in sostanza non ho mai seguito, o, più precisamente, confessato agli altri di seguire.

Il Santomato è così: un bar che si sviluppa in larghezza, uno stretto passaggio in discesa, e si entra. A rifornirsi al bar c’era Olaf Thorsen, che si tende a notare, perché è grosso: a proposito della sua prorompente stazza sarà mio dovere, più avanti nell’articolo, muovere una precisazione nei riguardi della persona di Roberto Tiranti. Ma non posso farlo adesso.

Ethereal Flames – Ph: Marco Belardi

Ethereal Flames – Ph: Marco Belardi

Il palco è di media dimensione – comunque più grosso di Olaf Thorsen e in grado di ospitarlo comodamente – e ha delle luci splendide. L’acustica sul gruppo spalla mi è parsa buona, ma non tutti gli strumenti uscivano benissimo. Usciva particolarmente bene la batteria, che molto spesso è la prima ad andare in crisi se non addirittura sotto terra. Il problema è che non posso esprimere un parere corretto sui suoni dei Labyrinth, perché li ho visti per tutto il tempo accovacciato alla transenna, come uno che sta cercando le chiavi della macchina che gli sono appena cadute per terra. Il punto migliore per capire come stanno le cose, è risaputo, è all’incirca dove sta il mixer. L’amico che era con me, ex fonico di palco, ai concerti si piazza sempre al mixer, un po’ come il varano che aspetta che la preda che ha mordicchiato crepi per setticemia per mangiarsela; solo che lui aspetta che crepi il fonico per prenderne il posto e spostargli tutte le levette. 

Il gruppo spalla si chiamava Ethereal Flames, che ho subito ricollegato alla regione Marche nel momento in cui hanno suonato una canzone chiamata Metauro’s Battle. Il Metauro è un fiume che ha origine nella omonima valle, alla confluenza, appunto, dei torrenti Meta ed Auro, in prossimità dell’abitato di Borgo Pace. Non lo so perché sono marchigiano, ma perché ci vado in vacanza più o meno tutti gli anni, ci mangio il crostolo con la salsiccia, ci ho pescato i cavedani eccetera eccetera.

Labyrinth – Ph: Marco Belardi

Labyrinth – Ph: Marco Belardi

L’epicità dei Virgin Steele e dei Domine, il piglio guerrafondaio di certo power metal di scuola crucca, una cura dei dettagli non certo da gruppo che si è appena prestato al debutto, Myths and Legends of our Land, con grafiche e lyrics video proiettati sullo schermo antistante il palco. Questo ho visto nella loro esibizione oltre a un grande affiatamento e innamoramento per il metal classico che fu e che ancora oggi è, ma anche un comparto canzoni da migliorare nell’efficacia. Un po’ il problema risiede nel fatto di dover ripescare obbligatoriamente da un’unica pubblicazione, ma comunque la proposta è acerba, per certi versi scolastica e rivedibile. Comunque grintosi, e in gradevole contrasto col power metal raffinato che verrà.

Il concerto dei Labyrinth è stato preceduto dallo spostamento in massa di tutti i presenti nell’area sottostante il palco: di conseguenza non mi sarei più mosso da quella mattonella, un po’ come al Sonar per i Coram Lethe un paio di mesi fa. 

È partito bene, è andato avanti alla grande, si è concluso con una canzone gloriosa. Sotto subito con Welcome Twilight, dal nuovo In The Vanishing Echoes of Goodbye, seguita da Lady Lost in Time cantata a squarciagola dai presenti e da New Horizons. I brani da Return to Heaven Denied Tiranti neanche li presenta e fa bene, sono classici, sono pezzi di storia, e ogni presente al Santomato grossomodo lo sa. Dopo due estratti da quell’album potrei fare cartella e andarmene col sorriso stampato, per quanto mi riguarda.

Labyrinth – Ph: Marco Belardi

Labyrinth – Ph: Marco Belardi

La scaletta è un’intelligente alternanza di vecchio e nuovo. The Right Side of This World ripesca dall’attualità, In the Shade dal periodo con Fabio Lione, anzi Joe Terry, perché così si firmava, e subito dopo Out of Place ci riporta al 2025. Sarà sulla cartaun po’ tutto così il loro concerto, con Thunder presentata come canzone d’amore e messa precisamente a metà setlist, a farci godere come ricci. Invece no, da metà in poi i Labyrinth prenderanno un’altra piega.

Return to Heaven Denied a pioggia con State of Grace, Falling Rain, Die for Freedom e addirittura con Feel, la strumentale, con Tiranti a ribadire che loro le corde le cambiano se si rompono, lui giustamente deve rifiatare. E ha spinto come un dannato.

Sugli altri della band ho un effetto contrastante poiché sono cambiati quasi tutti. Oleg Smirnoff era già approdato nei Vision Divine più o meno in coppia con Michele Luppi. È un fuoriclasse di livello assoluto e devono tenerselo stretto a qualsiasi costo, poiché ha già fatto le fortune di Eldritch e Death SS. Si è tagliato i capelli e se dovessi descriverlo direi che sta vivendo una lenta trasformazione in Josh Brolin.

Labyrinth – Ph: Marco Belardi

Labyrinth – Ph: Marco Belardi

Il bassista Nicola Mazzucconi non lo conosco, ma ha inciso con Jorn Lande e, per quanto mi riguarda, ciò basta e avanza a fare curriculum in suo favore. Alla batteria ero rimasto a Mattia Stancioiu, buonanotte Marco.

Roberto Tiranti sta costantemente nel mezzo fra Olaf Thorsen e Nicola Mazzucconi, e bullizza in continuazione quest’ultimo. Rifarsela con quest’ultimo e non con Olaf Thorsen che è grosso il doppio è una mossa leggermente da paraculo, ma per come canta gli si vuole bene lo stesso.

Andrea Cantarelli non l’ho nominato fino ad ora poiché era mia intenzione lasciare per ultimo il membro fondatore che è stato a bordo dal primo all’ultimo respiro.

A quel punto possono solamente chiudere con Moonlight sulla quale non ho nemmeno più voglia di stare a fotografare.

Grandissimo concerto per i Labyrinth, uno dei migliori che ho visto nel 2025, non il migliore per colpa o per merito dei Ponte del Diavolo giusto qualche mese fa, e dietro casa mia. Quanto al Santomato Live Club, spero di poter rivedere presto un concerto heavy metal entro le sue mura. (Marco Belardi)

Labyrinth – Ph: Marco Belardi

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