RETRO ROCK MANIA: non si esce vivi dagli anni ’70

Tutto questo revival anni ’70 (non è mica l’unico in piedi al momento, ormai quasi tutto è revival) si può dire che ha il suo spazio, nonostante ormai sia facilissimo recuperare qualsiasi gemma di quegli anni, perché di musica che suoni nuova ed esaltante, parlo almeno di quella con le chitarre, non ce n’è. Ma va ricordato che in realtà il filone è nato poco meno di venti anni fa, con la scena di Uppsala, Svezia, quella di Witchcraft, Dead Man, Graveyard, Horisont e altri. I KRYPTOGRAF sono di Bergen, in Norvegia, ma è come se suonassero un revival di quella scena lì (revival al quadrato). Più lato Graveyard che Witchcraft. Quindi meno cupi, tendenzialmente, e più raffinati. Più o meno. Noi li avevamo già incrociati col disco precedente, The Eldorado Spell. Il disco nuovo ha un titolo che manderebbe in sollucchero il Mazza, Kryptonomicon, e c’ha pure un calamaro gigante al centro della copertina che pare opera di Roger Dean. Quindi, ecco, sarà raffinato nei fraseggi, nelle orchestrazioni quasi prog, ma con un titolo così un po’ di Oscurità in più ce la deve. Un po’ nella coda space/stoner del brano che ha lo stesso titolo del disco, ma più ancora alla fine, con gli otto minuti di The Gales che si ispessiscono progressivamente, arrivano fraseggi gelidi e neri, la batteria aumenta i battiti fino al blast. Insomma, il prog retrò e gentile diventa quasi black metal, per un breve frangente. Interessante. Metteteci che in un altro frangente (meno interessante), quello di You and I, i norvegesi sembrano seguire il sentiero dei Queens of the Stone Age che conduce agli anni ’60, l’impressione è che i Kryptograf vogliano esplorare strade nuove e forse mutare pelle. Timidamente, per ora. Kryptonomicon non si scosta molto dal precedente.

Speravo si sarebbero trasformati un giorno in dei Black Sabbath parrocchiali, o per lo meno nei Wishbone Ash dei tempi nostri, gli inglesi WYTCH HAZEL. Invece alla soglia del quinto disco possiamo dire che non diventeranno altro, oltre ad essere comunque un nome di rilievo nel filone del retro rock vintage. L’album precedente non mi aveva propriamente entusiasmato e per il nuovo, V: Lamentations, confermo il giudizio. Sarà per le ragioni dei Nostri, che con le loro collezioni di salmi mirano più a fare proselitismo per “quello in alto”, piuttosto che per “quello in basso”, che forse non riesco a farmeli piacere del tutto. Presi sul pezzo singolo, i Wytch Hazel sono cesellatori eccellenti di rock anni ’70. Prendete Run the Race, formalmente inattaccabile. Ma sulla distanza dell’album intero non riescono a cacciar via l’impressione di monotonia. Non aiuta il tono delle parti vocali, molto poco varie, per melodie ma anche solo per estensione. Ma in generale tutto il disco pare medio, privato di troppi orpelli, vero, ma anche di scostamenti e articolazioni interessanti. Non so davvero a questo punto su quali basi potrebbero basare uno sviluppo futuro. Se continuano a pubblicare lo stesso disco, questo disco qui, anche se ci dovessero essere sempre dentro alcuni momenti ben riusciti (come in questo), difficilmente troverò la voglia di dedicargli ascolti.

Gli ELECTRIC CITIZEN sono di Cincinnati, sono in giro da un po’ (EC4 è l’album numero quattro), si sono accasati su Heavy Psych Sounds e ci tengono a far sapere che per il missaggio e la grafiche dell’album nuovo ha contribuito gente che ha già collaborato con Lana Del Rey. Voi, mi raccomando, prendete nota, si sa mai che questa informazione vi serva. La sostanza, comunque, è quella di un rock psichedelico tardi ’60, primi ’70. Malinconico e uggioso, benché a tratti gagliardo. La reginetta è la cantante Laura Dolan. Non ha una grande voce e l’interpretazione, se lo chiedete a me, ahimè, langue. Un po’ lagnosa, un po’ troppo. E purtroppo le viene dato anche risalto sul resto (ecco che forse serviva sapere che dietro al mixer c’era uno già al lavoro con la Del Rey). Comunque le trame sotto sono buone, un tanto prog, un tanto psych. Per gli adoratori del Capro, segnalo il bel riff NWOBHM di Smokey e quello doom di Lizard Brain. Purtroppo non si sfugge mai a lungo dai lamenti della Dolan, che vanifica la bontà di certe soluzioni strumentali.

Non troppo agli antipodi la formula degli svedesi THE RIVEN, che però calcando di più su riff un po’ piu hard e su strutture più rock’n’roll (ventate del caro vechio periodo Swedish Sins), anche nel senso di stradaiolo E di facile ascolto, quindi quel filone americano un po’ piacione, dai BÖC all’AOR, passando per il power pop. Insomma, è gioco facile intrattenerci, a quelli come noi, con questa roba qui. Contribuisce una prestazione vocale decisamente migliore, classica, impostata sul blues, una di quelle voci di chi avrebbe voluto più melanina. Insomma, un bel pacchettino, una confezione avvincente per un disco che di sussulti, emozioni, anche solo tensioni, non ne offre veramente. Un bell’intrattenimento dinamico, scalpitante (Seen It All sa quasi di Flashdance). Un rock’n’roll alla vecchia maniera, competente, ben calibrato. Un ascolto che però (o quindi) non resta.

I DUSTY ROSE GANG, da Detroit, Michigan, ce la mettono tutta per destarci e farci muovete un po’ più sia il culo che l’immaginazione. Come? Rock blues hendrixiano, imbevuto quindi di psichedelia, e un po’ della tigna dei MC5. Le voci volutamente in secondo piano, proprio cone importanza, quando c’è da far cantare le chitarre. Cosa che ai Dusty Rose Gang riesce abbastamza bene. Ohi, non vi starete mica aspettando un nuovo Hendrix, vero? Bene, allora divertitevi con questo A-One from Day One, che è fatto di quella pasta chitarrosa lì e che pare una lunga (manco troppo) jam, libera e forse più selvaggia dal vivo. In un brano come Feel Me c’è pure un po’ della sporcizia melodica di quel primo grunge minore sporcato di psichedelia ’60ies. D’altronde, Hendrix era di Seattle e i Big Chief del Michigan. Tutto torna, prima o poi.

La chicca del giorno, comunque, ce la siamo tenuta per ultima. Sarà che l’anno per me è iniziato dando di matto per un disco rock-blues e quindi questo Rumble&Roar dei germanici PARALYZED mi sta regalando altre belle soddisfazioni. I nostri hanno un’iconografia e un immaginario stregonesco/demoniaco. In realtà più accentuato nelle uscite precedenti, visto che nella copertina di questa qui campeggiano solo loro con una foto scattata, credo, nel 1969. Il suono è grasso, il tono è serio e cupo, ma l’anima è solo blues, blues-rock, heavy blues, quel suono che non si è ancora trasformato in hard rock (e magari non lo farà mai, che ne so io, è il 1969…), carattere da vendere, chitarre e organi corposi, una voce cavernosa, un ruggito, talvolta (Rosies Town) sensuale come un Jim Morrison ritiratosi nei boschi. In mezzo a tanti volume e tigna, anche riflessioni acustiche di grande suggestione (The Myth of Love), una cupa cantilena o ballad funebre (The Witch, stupenda), una calda e potente ruffianata soul (Leave You, inattacabile). È un album pieno di momenti ottimi, a volte grandiosi, un album che non ha davvero un difetto, nemmeno quello di suonare già sentito, perché col blues la questione non sinpone proprio. Un album delizioso. Caldo, graffiante, cupo. Non un briciolo di modernità, ma di quella noi non andiamo quasi più in cerca. Quindi godetevelo. (Lorenzo Centini)

3 commenti

Lascia un commento