Quando il death metal canta orrori vissuti: intervista ai MASACRE
La storia della Colombia contemporanea è intrisa di sangue, sin dalla guerra civile scoppiata alla fine degli anni ’40 passata alla storia come La Violencia. E negli anni ’80 Medellin era uno dei posti più pericolosi del mondo. Il cartello di Pablo Escobar era l’epicentro di una serie interminabile di stragi contro il quale poco potevano fare autorità deboli e corrotte impegnate in violentissimi scontri con le milizie insurrezionali comuniste, dalle Farc alla M-19. Le atrocità raccontate dai Masacre nel loro Lp d’esordio Reqviem, uno dei capisaldi della scena estrema sudamericana degli anni ’90, non erano quindi fantasie e proiezioni di un agiato borghese nordeuropeo. Erano gli orrori che segnavano la loro precaria esistenza, vissuta nel terrore della polizia, che utilizzava volentieri i metallari “satanisti” come capro espiatorio, copione noto. A raccontarci cosa significasse suonare death metal in quel luogo e in quel tempo, in occasione di una data a Roma insieme ai Mortuary Drape, è Alex Okendo, cantante e fondatore di un gruppo che in gioventù non era in grado nemmeno di ottenere i visti per suonare in Europa, dove i loro dischi erano presto diventati di culto, ma oggi si sta prendendo parecchie rivincite e soddisfazioni.
Reqviem fu il secondo album pubblicato dalla Osmose, che sarebbe diventata presto un’etichetta molto importante. Come entraste in contatto con Hervé?
“Hervé aveva una società di distribuzione chiamata Strangulation che aveva trattato anche le nostre demo. Ola de Violencia, il nostro primo Ep, aveva venduto molto bene in Europa e Hervé decise di metterci sotto contratto per registrare un album. I ragazzi europei avevano grande curiosità e interesse per il metal sudamericano. Il problema era che non ci era possibile andare a suonare in Europa, nessuno ci avrebbe rilasciato un visto. Eravamo molto giovani e le ambasciate pensavano che ne avremmo approfittato per trasferirci in un altro Paese. Ma volevamo solo andare a suonare, viaggiare, e non è stato possibile fino al 2000″.

Anche a causa di questi problemi, avete avuto una carriera piuttosto discontinua. C’è mai stato un momento in cui hai pensato di mollare?
“No, perché questa è la mia passione nella vita, è tutto. Su questa base ho costruito la mia famiglia, i miei amici, il mio mondo, la mia vita, la mia identità. Ci ho costruito la mia carriera professionale. Ho studiato pittura alla Scuola di Belle Arti, ho sviluppato il mio stile di disegno e ho aperto uno studio di tatuaggi, portando intanto avanti altri progetti musicali, per sostenere l’esistenza di una scena, di un movimento anche in Colombia”.
Oggi state recuperando, passate spesso in Europa e in Nord America
La svolta arrivò nel 2015, quando facemmo il 70.000 Tons of Metal. Fu da allora che iniziammo a viaggiare e a suonare molto in giro, a ricevere chiamate da molti posti. Siamo in tournée in tutto il mondo dal 2015. Sta andando molto bene, stiamo dando il massimo. Ogni volta che veniamo in Europa restiamo molto sorpresi perché la gente è molto coinvolta, molto felice. Per noi è un enorme piacere perché significa che stiamo facendo le cose per bene. Suoniamo in modo diverso dalle band europee, portiamo con noi un messaggio sociale e politico molto forte, che ci definisce. E siamo una delle poche band oneste rimaste in Sud America, che non sono mai morte, che non se ne sono mai andate, che non hanno mai cambiato stile, che non si sono svendute, che non si sono commercializzate, che non si sono nemmeno fermate a crescere i figli, a studiare o a lavorare ma hanno dato tutto al gruppo.
Il prossimo disco quando esce?
L’anno prossimo. Abbiamo un contratto con Osmose per altri due album. Sarà cantato in spagnolo e i testi parleranno sempre del nostro Paese, del dolore che sopportiamo, della violenza, della realtà, degli omicidi, dei massacri, del narcotraffico, della guerriglia, del paramilitarismo, del governo. C’è un’enorme quantità di argomenti di cui poter parlare.

Cosa ricordi delle prime demo?
“Agli inizi, tutto era molto primordiale. Non c’erano strutture, né strumenti. C’era una chitarra che tutte le band si prestavano a vicenda, una piccola console che tutte le band usavano per registrare. Non c’erano studi musicali, né studi di registrazione. Era molto difficile ma è stato partendo dal nulla con un progetto da realizzare che ci ha consentito di costruire, aprire una strada, fino a raggiungere ciò che abbiamo ora”.
Avevate contatti allora con le altre band sudamericane?
“Certo, con Sarcofago, Volcano, Mistyfier… Abbiamo sempre avuto contatti con tutti loro. In Sudamerica abbiamo creato uno stile di heavy metal particolare, tutti questi gruppi condividono qualcosa di simile. È un genere che si identifica molto con la classe sociale, un po’ povero, operaio, grezzo. Anche in Colombia c’erano gruppi underground importanti come Parabellum, Astaroth e Blasphemia. Avevano un suono molto grezzo che ha influenzato parecchio quello che sarebbe diventato il nostro modo di suonare”.
Com’era la vita per un giovane metallaro a quei tempi? Era un problema uscire per strada?
Era difficile, la polizia ci cercava sempre, ci picchiava, ci rubava le magliette, ci metteva droga nelle tasche, ci pedinava, ci accusava di satanismo. In un Paese molto religioso, era come cercare di eliminare chi non lo fosse. Veniamo da un Paese puritano, di destra, religioso, corrotto, e quello era un periodo storico molto difficile in cui c’erano molti omicidi, molta droga e molta violenza. A volte ci nascondevamo, non uscivamo molto. La violenza era ovunque intorno a noi. E perseguire e aggredire i metallari per satanismo era forse anche un modo per evitare di concentrarsi sui veri problemi, ovvero il narcotraffico e i sicari, creando pericoli immaginari quando c’erano in giro molti pericolosi assassini. I veri cattivi erano liberi.
Immagino che non ti abbia fatto piacere che Pablo Escobar, complice anche la serie Narcos, sia da tempo diventato un’icona pop
Già, perché non c’è niente di divertente nel narcotraffico. Non c’è niente di fico. È quello che ci succede davvero nella vita. La gente che indossa una maglietta con Pablo fa un’apologia della morte. Noi non vogliamo più saperne di Pablo Escobar, è qualcosa che cerchiamo di cancellare.

Ho letto che hai ricevuto un diploma dal Consiglio Comunale di Medellín. Qualcuno in politica ha riconosciuto che avete fatto qualcosa di positivo per la Colombia
In molti. Persone che hanno condiviso la giovinezza con me, che erano rocker, metallari, che ora hanno studiato, sono diventati professionisti e hanno ricoperto cariche politiche, ma che ancora vengono a vedermi dal vivo e apprezzano il nostro lavoro.
E com’è la situazione in Colombia adesso? Cosa ne pensi del nuovo presidente, Gustavo Petro?
È solo un altro bandito al potere. La Colombia è governata da banditi di destra, banditi di sinistra, narcotraffico. Non cambia. È sempre la stessa merda. È brutto. Siamo messi male.
Ma la situazione della violenza è cambiata?
No, è sempre la stessa.
Come negli anni ’80?
Forse non scoppiano più così tante autobombe, ma alcune volte succede ancora. Di recente ne è esplosa un’altra. Il problema persiste. Permane. È acuto. Non cambia.
Nel death metal la violenza raccontata è spesso immaginaria. I testi di Reqviem parlano di ciò che stava accadendo in Colombia in quel momento
Sì, era quasi apocalittico. Molte cose successe all’epoca hanno continuato ad accadere e stanno accadendo ancora oggi. È come se avessi raccontato un momento storico e lo avessi immortalato per sempre. Questo è Reqviem, il canto dei morti. (Ciccio Russo)

bellissima intervista, complimenti!
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Grazie!
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