GREEN CARNATION – A Dark Poem, part I: The Shores of Melancholia

Sono trascorsi cinque anni da Leaves of Yesterday, ritorno sulla lunga distanza dei Green Carnation, un album che fungeva da summa della carriera della band, ideale prosecuzione del percorso bruscamente interrotto (non considerando Acoustic Verses) da The Quiet Offspring e che serviva al gruppo per “riprendere le fila” della propria carriera e riaffacciarsi al suo pubblico. In effetti, se si considera la presenza della buona cover di Solitude e di un rifacimento di un brano tratto dall’esordio della band, Leaves of Yesterday non può che essere visto oggi come una sorta di prova generale, anche per prendere tempo ed elaborare le mosse successive.

E il “tempo” è il fulcro della di A Dark Poem, part I: The Shores of Melancholia, prima parte di una trilogia – che dovrebbe essere completata nel futuro più prossimo – incentrata su come lo scorrere del tempo ci costringa a confrontarci con alcuni quesiti universali e non. Al centro della trilogia, il cui titolo si ispira a Ophelia, poesia di Arthur Rimbaud, esplicitamente menzionata nel disco, vi è proprio il tema dell’alienazione e di come i conflitti interiori che tutti viviamo, a volte su base quotidiana, si scontrano con l’approccio che abbiamo verso il mondo esterno, creando un ulteriore conflitto. In tal senso, la complessità tematica si riflette anche sul piano musicale in un album che, se da un lato non si discosta troppo dalle ultime pubblicazioni dei Green Carnation, dall’altro è molto più ricco e meno decifrabile di quanto potrebbe sembrare in apparenza, a dispetto di una certa “orecchiabilità” che ne connota soprattutto i ritornelli. Ed è qui che ritorna la rilevanza del “tempo”: non è un lavoro che può essere compreso e apprezzato appieno dopo pochi ascolti e senza lasciare, un minimo, sedimentare le trame tessute dalla band, perché si farebbe un torto all’ambizioso progetto che i norvegesi stanno portando avanti. E la fretta porta anche a fornire interpretazioni errate, o a dare informazioni infondate: per fare un esempio concreto, in più sedi ho letto delle “chitarre di Tchort” o dell’impronta che il fondatore del gruppo dà a questo lavoro, quando basterebbe leggere i crediti del disco per appurare che non solo il chitarrista non ha composto nessuno dei brani, ma non era presente neanche in sede di registrazione. Tanto è vero che sui social del gruppo, quest’estate, gli è stato dato il bentornato dopo un’assenza di quattro anni per “motivi personali”.

Questa sciatteria, dettata dal dover esprimere subitaneamente la propria opinione su qualsiasi cosa per poi passare a un altro argomento, è una iattura contemporanea che spiega anche determinati giudizi – di qualunque tenore – su un album che, pur non rivoluzionando il sound dei Green Carnation, è tutto fuorché un calco delle ultime pubblicazioni. Questa prima parte di una trilogia che riprende un progetto che Tchort aveva in mente da anni, come evidenziato anche in sede di recensione di Leaves of Yesterday, rappresenta un sensibile ritorno ad atmosfere del passato. Non stiamo parlando di un cambio “di genere”: l’impronta progressive degli ultimi lavori della band è anche qui predominante, ma è declinata in una versione nettamente più cupa, come si intuisce sin dall’iniziale A Silence Took You, brano che mette in scena uno struggente rapporto con il lutto e l’incapacità di dire addio, che mi ha ricordato, tematicamente, la recente And Nothing is Forever dei Cure. Un pezzo oscuro, dall’incipit quasi doom, che si apre a melodie più settantiane e che regala una grande prova di Kjetil Nordhus.

Una “oscurità” che emerge anche nei pezzi più melodici, come nella splendida Me, my Enemy, che partendo da un’atmosfera quasi da secondi Pink Floyd – soprattutto nell’ottima base ritmica costruita da Perez e Sordal, su cui si stagliano le tastiere di Kirkesola – si apre su riff solenni e cadenzati che attribuiscono alla canzone una notevole drammaticità. Un disco di contrasti, di luci ed ombre che riportano alla mente anche echi del capolavoro Light of Day, Day of Darkness, come nella straordinaria The Shores of Melancholia, forse il miglior brano del lotto, che parte da un’intro quasi à-la Kashmir e che, in cinque minuti, riesce ad inglobare tutte le anime dei norvegesi che, per la prima volta da anni, si concedono anche “lo sfizio” di pubblicare un brano  tiratissimo, estremo e semplicemente esaltante, come The Slave that You Are, che vede la presenza di Grutle degli Enslaved alla voce.

In conclusione ci troviamo al vero primo tassello del nuovo percorso intrapreso da una band che meriterebbe molta più attenzione e che ha pubblicato uno degli album migliori della propria carriera nonché una delle migliori uscite di questo 2025, facendoci attendere con trepidazione i due successivi capitoli di questa trilogia. (L’Azzeccagarbugli)

Un commento

  • Avatar di Pepato

    Non so, a me ha annoiato abbastanza. Suona troppo simile ai gruppi neo-prog di 15-20 anni fa. È vero quello che dici sulla necessità di ascoltarlo con calma e in più tempo, ma anche così non mi ha mai davvero conquistato. La classe c’è tutta, questo è fuori discussione.

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