Avere vent’anni: NEVERMORE – This Godless Endeavor

Molti metallari, nel 2005, erano impegnati a sperare che i Nevermore non facessero un altro album come Enemies of Reality. Saprete certamente come era andata: all’inizio avevano affidato i suoni a Kelly Gray, chitarrista in orbita Queensryche, il quale, oltre a protrarre all’infinito le sessioni, incasinò il tutto finché il gruppo non rimise il mix in mano al fido Andy Sneap. Finito il riassunto, dico subito che attesi l’uscita del nuovo album dei Nevermore come pochi titoli al mondo, perché in quel periodo non stava uscendo più niente per cui valesse la pena non dormire la notte.

Quando sento parlare di This Godless Endeavor me ne arrivano di tutti i colori. Per alcuni è l’album definitivo della band di Seattle, oppure quello che al meglio definisce il loro stile in seguito ai modernismi di Dead Heart in a Dead World. Non sono d’accordo con nessuno di loro. I pochi che ne parlano male vivono in condotti sotterranei infestati dai topi, e la notte, solo la notte, escono al chiarore della luna per imbrattare le mura degli edifici con sincere invettive. È proprio la sua manifesta perfezione a non comunicarmi niente.

La copertina fu firmata Hugh Syme dopo svariate collaborazioni con Travis Smith. Tutti quei bachi che si vedevano nell’artwork di Enemies of Reality dovettero averli indotti a cambiare idea. Hugh Syme non era un coglione: aveva fatto Youthanasia, un botto di roba per i Dream Theater e pure per gli Iron Maiden. Qui si limitò a riprodurre un bambino di sesso incerto, il cui unico tratto certo era essere identico a un Jeff Loomis infante, su uno sfondo di teschi impalati fatti in una CGI da 1995.

Il suono, per la serenità dei metallari, era il solito suono di Andy Sneap. Per me leggere il suo nome equivalse a non avere un cazzo per cui festeggiare; ma tutti gli altri uscirono in strada e pisciarono nei tombini urlando grida di autentico giubilo, recapitando la propria urina a coloro che, a quell’ora, giacevano nei condotti sotterranei, fra i ratti, in attesa di imbrattare altre mura la notte seguente.

La prima canzone che ascoltai era un capolavoro totale. Born, una delle migliori e più veloci mai scritte dai Nevermore, una bordata che sfociava nel ritornello perfetto. Pure Final Product era bella. I riffoni portentosi di My Acid Words non reggevano da soli la canzone in quanto tale. Alla quarta Bittersweat Feast il discorso era il solito.

Nella prima metà del disco avevo già sentito sufficiente puzza di bruciato, questo fu il primo effetto. I lentoni erano carucci, Sentient 6 e Sell my Heart for Stones, ma non pompavano abbastanza sangue al cuore quanto i lentoni delle annate precedenti. Soprattutto quelli di Dead Heart in a Dead World, cui l’attuale album s’intendeva confrontare in campo aperto, faccia a faccia, in una versione meno ammodernata e più corretta. The Psalm of Lydia conteneva l’assolo di Jeff Loomis più bello di tutto il disco. Il biondo musicista era in assoluto stato di grazia.

Riascoltato vent’anni più tardi, trovo This Godless Endeavor formalmente perfetto, impeccabile nelle prime due canzoni e incapace di trasmettermi qualcosa di concreto subito in seguito. Stanchissimo nella sua seconda metà. Simpatizzo per A Future Uncertain, ma non è niente d’eclatante neppure questa. E io dai Nevermore pretendevo le cose eclatanti che avevano caratterizzato i loro incredibili capolavori, The Politics of Ecstasy e Dreaming Neon Black. E invece si era rotta l’alchimia e si erano allargate le crepe interne ai loro rapporti interpersonali. Ma qui, e solo qui, fecero finta che il problema non esistesse e che i Nevermore fossero ancora in grado di bissare i loro titoli più blasonati. E tutti abboccarono. (Marco Belardi)

7 commenti

  • Avatar di Hieiolo

    Come mi succede per alcuni cantanti, tipo King Diamond, non sopportavo i Nevermore per colpa della voce nenia / cantilena del povero Warrel Dane ( RIP ). Se anche avessero scritto Master of Puppets non li avrei sopportati lo stesso.

    Tra l’altro Van Williams uno dei batteristi piu’ sottovalutati di sempre.

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  • Avatar di Fanta

    Per me è stato un grandissimo singer, con un modo di scrivere le linee totalmente al di fuori degli schemi. Il problema è che è andato velocemente perdendo ampiezza nello spettro vocale. Se da un lato gli eccessi gli hanno donato una profondità timbrica spettacolare (non mi piaceva quando era il classico “strillone” nei primi Sanctuary), dall’altro ha iniziato ad arrancare terribilmente. Già su questo disco in Bittersweet Feast va in grossa difficoltà sulle strofe (al limite della stecca) e si tiene molto basso.

    Sul disco più in generale sono abbastanza d’accordo con Berardi. Però cazzo, avercene di album così, oggi.

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  • Avatar di Fanta

    P.s. questi è più di un anno che vanno cercando un cantante nuovo. Novità? Non mi pare. O più probabilmente la stanno buttando sul mistero di pulcinella da social (come cazzo siamo ridotti, madonna).

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  • Avatar di alehc77

    ci ho provato e riprovato, li ho anche visti dal vivo tre volte, ma non è mai scattata la scintilla… anche per me, la voce di Dane è noiosa, la vena progressive ha fatto il resto…

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