Splendidi quarantenni: MÖTLEY CRÜE – Theatre of Pain

È il 1984. L’anno sta per finire. Le porte del Valhalla discografico ti si stanno spalancando davanti. Sei felice.

I Mötley  Crüe del 1984 stavano raccogliendo appieno i successi dell’epoca di MTV e della definitiva esplosione dell’heavy metal come genere commercializzabile, che era in procinto di farci due favori: obliterare quanto rimaneva della discomusic e del suo immaginario, e dare un bel colpo alla spocchiosissima new wave, per la maggior parte composta da fuffa pseudo-intellettualoide di eterni studenti di belle arti indossanti giacche lise e cravatte modello “skinny”, a mascherare la quasi totale incompetenza musicale. Finalmente tornavano i riff, gli assoli, le chitarre ben distorte, le borchie, ir diavolo e il divertimento come unico scopo.

Shout at the Devil aveva già venduto qualche milionata e i Crüe si accingevano appunto a diventare la band-guida del successo commerciale di capelloni, drogati e reietti vari che avrebbero poi impensierito talmente l’establishment da occupare l’ordine del giorno di una ormai celeberrima seduta in Senato dal gusto nemmeno così vagamente maccartista, in cui Dee Snider, John Denver e Frank Zappa avrebbero rappresentato il mondo dell’entertainment musicale davanti al plotone di esecuzione organizzato dal mai troppo bistrattato Al Gore per compiacere la moglie Tipper e un altro paio di amiche del club del libro di questa, inscenando una farsesca caccia alle streghe di cui tutto il mondo ride ancora.

Theatre of Pain ebbe però una gestazione che dire travagliata sarebbe un eufemismo. La dipendenza di Sixx dall’eroina stava diventando insostenibile, e Vince… beh, Vince Neil era impegnato nella sua attività preferita, ovvero essere una testa di cazzo ventiquattro ore su ventiquattro.

Una notte di dicembre, infatti, proprio mentre una festa ad altissimo tasso alcolico impazza ormai da tre giorni nel suo lussuoso attico di Redondo Beach, il nostro decide di rodare la sua nuova Pantera De Tomaso per andare a ricaricare le libagioni in un vicino drugstore. All’evento è presente anche Nick “Razzle” Dingley, un ragazzone inglese che suona la batteria e che le spiagge gremite di bionde svestite e il clima generoso della California fino ad allora li aveva visti solo in cartolina; ora che finalmente sta per svoltare con la sua banda, i finlandesi Hanoi Rocks, non si vuole perdere nemmeno un minuto dei benefici della vita da rockstar di cui Nikki, Vince, Tommy e Mick gli stanno dando un succulento assaggio.

Razzle si offre come volontario per accompagnare Vince a fare il pieno di Budweiser, quando, al ritorno, il cantante dei Mötley Crüe decide di dare un po’ di gas e, perso il controllo del mezzo, si schianta contro un maggiolone che viene dalla parte opposta, lasciando permanentemente in sedia a rotelle uno degli occupanti. Ma è Razzle ad avere la peggio.

Visto che non li si vede tornare, Tommy Lee e Andy McCoy, chitarrista degli Hanoi Rocks, decidono di andare a cercare Vince e Nick, ma quello che trovano, a pochi isolati dal lussuoso condominio, è una scena che nessuno dei presenti dimetincherà: un’ambulanza sta portando via il corpo senza vita di Razzle e Vince è seduto sul marciapiede, ammanettato e in stato catatonico. Il livello di alcol nel sangue è ben sopra la norma allora consentita e per lui non c’è alternativa: viene arrestato e processato. La sentenza è però una barzelletta che non fa ridere nessuno: trenta giorni di prigione, duecento giorni di servizi sociali e cinque anni di condizionale. Più il pagamento dell’esorbitante cifra di due milioni  e mezzo di danni alle parti lese. L’intero album, inizialmente intitolato Entertainment or Death viene rinominato, forse in maniera più pertinente, Theatre of Pain, e dedicato alla memoria di Razzle. L’avvertimento di non guidare dopo aver bevuto, presente nell’inserto del disco, più che di lezione imparata nella maniera peggiore, sa di imposizione da parte della casa discografica e del management, anche e soprattutto viste le vicende non proprio di sobrietà che segneranno ancora l’esistenza del gruppo.

Eleganza e sobrietà prima di tutto

È questo il contesto in cui vede la luce quello che molti definiscono il disco più debole dell’epoca d’oro dei Mötley Crüe e vero spartiacque del cosidetto “glam metal”, che subì una svolta di immagine proprio con questo album, passando dalle catene e le borchie ai merletti e gli spandex rosa, generando vagonate di imitatori in cerca di un disco di platino facile facile e altrettanti detrattori, i “puristi” del metal, che preferivano i generi più duri che stavano vedendo la luce proprio in quegli anni.

Oggi, forse, Theatre of Pain può essere visto quasi come un “guilty pleasure”, visto il calo generale della qualità e l’immagine artistica adottata, e soprattutto se comparato ai primi due dischi, che facevano dell’urgenza di sputarti in faccia o sfregiarti con un rasoio il leitmotiv della “proposta culturale” dei Mötley Crüe dei primi anni Ottanta. L’album però contiene parecchi pezzi che funzionano, non solo quei due che diventarono i singoli di apertura, ovvero la cover di Smokin’ in the Boys Room dei Brownsville Station (il primo esempio che mi viene sempre in mente quando penso ad una cover migliore dell’originale) e la famosissima Home Sweet Home, ancora oggi paradigma della cosidetta “power ballad” degli anni Ottanta.

Il primo lato è tutto bello, a partire dall’apertura con City Boy Blues, al cui ascolto pare di visualizzare vicoli pieni di spazzatura e vapore che sale dai tombini.

Il secondo lato è quello che forse contiene più riempitivi, che erano materia sconosciuta su Too Fast for Love e Shout at The Devil, ma tra questi solchi si trovano ancora perle come Tonight (We Need a Lover), con il suo groove sudicio ma ammiccante, la sbrigativa Use it or Lose it e soprattutto la sottovalutatissima Save Our Souls, con quel riffone pesante e il testo che sa di tragedia imminente.

Vale la pena ancora spendere due parole sul risultato sonico. Per quanto i lavori di Tom Werman siano stati criticati negli anni (chiedete a Dee Snider cosa ne pensa di costui), e per quanto qualitativamente parlando questo sia nettamente il peggiore risultato ottenibile da una band con un budget come quello che i Crüe avevano all’epoca, Mick Mars colpisce ancora una volta per quello che riesce a fare meglio, forse come nessun altro, ovvero l’avere un “tono” diverso e non replicabile su ogni disco storico del gruppo, a suprema dimostrazione che questa caratteristica viene esclusivamente dal polso e dallo stile del musicista, e non dalla tecnologia e da leve e pulsanti di un mixer in uno studio professionale. Questa qualità camaleontica dell’oggi ingiustamente bistrattato chitarrista lo rende una pedina non rimpiazzabile, nemmeno dal più funambolico musicista che va sul manico a trecento all’ora. Questo reinventarsi sempre all’insegna del gusto e della qualità degli assoli e dei lick, quasi tutti indimenticabili e piazzati al millimetro esattamente dove devono essere, è forse la vera forza di Theatre of Pain. (Piero Tola)

6 commenti

  • Avatar di Old Roger

    A me mi piace. I primi cinque dei Crue sono da incorniciare , nonostante sia sicuramente da arruolare nei puristi “denim&leather” non posso sottrarmi al fascino perverso della musica di questo quattro debosciati. Mars sempre sugli scudi

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  • Avatar di Stefano Ronco

    grandi grandi ma ancor di più gli Hanoi, che purtroppo finirono la loro carriera quella maledetta notte dopo 5 capolavori assoluti. Due gruppi apripista di Cinderella, Poison, Faster Pussycat etc. Che bei tempi con glam e lo street, poi arrivarono quelli di Seattle e distrussero tutto. Vado ad ascoltarmi i Circus of Power mi e’ venuta voglia.

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  • Avatar di Leo

    A pensarci oggi sembra impossibile che sia esistito un periodo cosi ma i Motley Crue ne sono la prova più emblematica

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  • Avatar di Maurizio

    Disco debole,anche di sound effettivo da produzione,ma le idee buone non mancano. Fu comunque una svolta come dice giustamente la rece. Fino a Girls Girls Girls non erano minimamente gestibili e la ciliegina sulla torta fu mandarli in tour con la band più pericolosa, i Guns…

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  • Avatar di Er Patata

    E ancora dovevano uscire Girls, Girls, Girls e Dr. Feelgood!

    ora è facile prenderli per il culo ma all’epoca va ricordato come pubblicarono una serie di bombe una dietro l’altra!

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  • Avatar di Andy

    ….una band di pazzi allo sbaraglio….questo erano i Motley in quegli anni….non so ancora come fece Vince Neil a passarla liscia dove aver ucciso quel povero ragazzo….ricordo che molti giornali a fine anni 80 scrissero di un intermediario nel management ,molto influente a Los Angeles….va a sapere….magari un nipote di un giudice … Parlando dell’album theater of pain posso dire che a me è sempre sembrato un passo falso..segnava un periodo di confusione totale che sfociò in un colpo al cerchio e uno alla botte…un disco che non sapeva che strada scegliere con una produzione per lo più spoglia e poco incisiva….per i Motley bisognerà aspettare dr feelgood per la vera consacrazione…negli anni 90 invece di fare cacate, fossi stato in loro avrei risuonato tutti gli album precedenti….anche girls girls girls aveva una produzione orrenda….detto questo ,un sacco di brani furono comunque azzeccati e in sede live emergevano alla grande!

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