Avere vent’anni: AUDIOSLAVE – Out of Exile

E invece io vi dico che a me questo disco piace, sinceramente. Poi sì, c’è quell’obbrobrio di Be Yourself che quasi mi sfianca, ogni volta. Melassa inascoltabile. Ma a tutto il resto, davvero, che gli vuoi dire? Era questo che dovevano essere gli Audioslave. Nonostante ci sperassimo (o fingevamo di sperarci), non sarebbero mai stati grandi come i Rage Against The Machine o i Soundgarden. Mai. Potevano essere la pensione di stralusso di quattro (chi più, chi meno) rockstar, pensionate precocemente, ma tanta roba. A me Out of Exile piace davvero. È facile, è quasi… leggero, passatemi il termine. “Hard rock easy listening” di stralusso. Passasse questo, alla radio generalista, o anche solo su Virgin Radio, avremmo tutti qualche nevrosi in meno. Il perché mi piaccia questo disco è semplice, ve li elenco i motivi, se volete, e fatemi partire da Tom Morello perché lo strapazzo sempre e poi voi pensate magari che in fondo io bene non gliene voglia manco un po’. Non è vero. Sarà perché Rick Rubin a ‘sto giro le chitarre le ha fatte uscire bene, le ha fatte uscire vere, ma i riff di Morello sono proprio belli. Un suono ruvido, non pompato, non ipersaturo, poco distorto azzarderei, armonico. E funziona, diamine se funziona. Metteteci che fa poche, pochissime minchiatine delle sue (rispetto alla media) e io insomma, alle chitarre di questo disco qua faccio tanto di cappello. Bravissimo. Anche nelle parti soliste, dai. O almeno, per la maggior parte. Ai due comprimari non dico niente. Brad Wilk un’anima non ce l’ha mai avuta e mica potevano infondergliela, ma altri appunti da fargli non ne ho, oggi. Manco il basso-scoreggia di Commerford mi indispone, in Out of Exile.

Mi prende troppo bene, ma forse è perché è l’ultima volta, forse, che Cornell è stato Cornell. No, dai, intendiamoci, la voce era partita, ok. Ma che fa un vecchio leone che torna nell’arena? Ci mette il pathos, l’interpretazione, la credibilità. Tipo Johan Längqvist che rientra nei Candlemass, quella roba lì. Vent’anni fa Cornell non era un vecchio leone, anagraficamente, ma per il resto quanto tempo sembrava essere passato… meno di dieci anni da Down on the Upside, ma si sentono come minimo raddoppiati. Eppure qua Cornell canta libero, col cuore in mano. Non ci pensa nemmeno a scalare, resta sul sentiero e fa bene, fa benissimo. Canta. Ecco. Non interpreta nessun personaggio, sente molta meno pressione e canta come sa (sapeva) fare lui. E insomma, io questo disco lo difendo. I suoi scivoloni ce li ha, per carità. Ma complessivamente ha più centri che buche. Non è comunque un disco allegro, figuratevi che la migliore si intitola annegami lentamente… Comunque la canta proprio bene, Cornell. E poi che pretendete. Io a Cornell voglio (volevo) un bene dell’anima. Sentirlo una volta tanto leggero, fresco, senza ansie e mica fuori posto (tipo quando se ne uscì col disco con Timbaland) a me fa ancora bene al cuore. Come quando incontri dopo una marea di tempo quell’amico che una volta era una leggenda, tenebroso o almeno carismatico. Non sta più con la sua vecchia fiamma, quella che sotto sotto faceva girare la testa pure a te. Ma con la nuova compagna sta bene, è sereno e te lo vuole pure dare a vedere. Fa bene. Tu sei contento per lui, ovvio. Ci sono modi molto peggiori di invecchiare. Anzi, speri proprio di vederlo invecchiare. Speri. (Lorenzo Centini)

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