Cordoni, spaghetti & caproni: la rassegna stocastica dei bassisti metal italiani #2 – Ignazio Semproni

Proseguiamo con questa rassegna alla scoperta dei bassisti metal italiani, inviluppandoci subito con il metodo che sto seguendo, ovvero quello della curiosità e dell’istinto. Oggi non parliamo di un bassista famoso, ma di un personaggio che per motivi personali si esercita e suona in casa propria, il quale riesce a farsi notare per la propria meravigliosa tecnica strumentale e lo prendiamo come esempio di un mondo di musicisti amatoriali ad altissimo livello, che si impegnano nel loro privato, ma che un giorno, chissà, potrebbero spiccare il volo e diventare qualcosa di più grande.

Ignazio Semproni, oggi trentasei anni e medico di professione, diversamente da altri personaggi famosi che appariranno in questa rubrica, non suona in alcuna formazione particolare, ma è comunque un bassista di grandissimo talento, che diventa testimone e osservatore qualificato dei bassisti del nostro tempo. Ha avuto fino a qualche anno fa le sue esperienze, sia in studio che dal vivo, mentre oggi è soprattutto un esperto praticante dello strumento, che continua a studiare e con il quale gli piace sfidare le proprie capacità tecniche, oppure ricordare le glorie dell’heavy metal che lo hanno portato ad ascoltare il nostro genere. Il suo modo di suonare colpisce soprattutto per la grande abilità e la disinvoltura con cui si cimenta nelle parti di alcuni bassisti del death metal tecnico, che hanno portato il suo canale YouTube ad avere una certa popolarità. Non mancano però momenti più distesi e altrettanto godibili, come quando suona parti di Steve Harris o John Myung, sempre con stile impeccabile e strumentalmente corretto.

L’approccio di Ignazio, che nasce sia dalla voglia di suonare che dall’impossibilità contingente di potersi dedicare alla carriera di musicista, è significativo e rappresentativo di e per tutti coloro che si trovano in condizioni simili, per condizioni familiari, personali o per qualunque altro motivo: i mezzi di oggi, come sappiamo già, permettono di studiare e di confrontarsi a distanza con una comunità vastissima di appassionati, per cui chi si impegna e chi vuole, può progredire e farsi notare, anche se non è attivo dal vivo o in discografia. Ho colto l’occasione per fare una breve ma interessante chiacchierata con lui e parlare allegramente dello strumento più importante dell’universo.

Ciao Ignazio, benvenuto sulla nostra rubrica dedicata a questo strumento che, diciamolo, è il più importante di tutti. Cos’è per te il basso?

Il basso è la più grande espressione della mia passione per la musica, arte con cui ho iniziato molto presto a confrontarmi: a cinque anni con il pianoforte. Avevo inoltre l’esempio di mio fratello, quattro anni più di me, che suonava in un gruppo punk, poi un giorno ho sentito gli Iron Maiden, in particolare ho sentito Steve Harris e mi è cambiato il mondo. Quella roba lì doveva essere mia a tutti i costi e ho iniziato a dapprima con il quattro corde, poi ho conosciuto John Myung e ho visto che esisteva anche il sei corde. Tornando a cosa sia il basso per me, è stato soprattutto scoprire uno strumento che permettesse di avere sonorità così profonde da poter fare da sostegno per gli altri strumenti, ma anche di poter eseguire delle parti importanti: poter sostenere gli altri strumenti e mantenere il fondamento armonico della canzone per me è la massima espressione artistica. Poi ha molte possibilità tecniche: da una parte lo si può usare in modo classico con il fingerstyle, oppure si può usare il tapping, quindi trasformarlo in un pianoforte, oppure fare lo slap e diventare una batteria. Ha possibilità sonore che molti altri strumenti non hanno. Per me è lo strumento più perfetto del mondo, che permette di fare più cose, per lo meno per come la vedo io. Poi a me piacciono anche gli altri strumenti, per esempio strimpello un po’ la batteria per divertimento, però quello che mi dà il basso quando ce l’ho fra le mani, non me dà nient’altro. Non so come la vedi tu da bassista…

… Da ex-bassista. Anche io ero rimasto affascinato dalle frequenze basse, fu una cosa molto viscerale, è lo strumento che mi affascinò di più di tutti. Mi ci appassionai che ero già metallaro, avevo già fatto la mia trafila coi classici Iron Maiden, Motörhead, Sodom, Metallica, etc., poi in quel momento si stava sviluppando molto il metal estremo, dove si cominciavano a sentire i virtuosi più moderni, per esempio era appena uscito Human dei Death, con Steve DiGiorgio: era talmente avanti che io lo compresi solo qualche anno dopo. Poi, come ricordi tu, arrivarono i Dream Theater e tornò la foga per il prog e l’interesse per stili diversi e in parte dimenticati dagli anni Settanta. Tornando a te, il momento in cui decidesti di suonare il basso fu quando sentisti gli Iron Maiden?

Si. A quell’epoca avevo undici anni e non avevo un mio basso. Mio fratello aveva una vecchia imitazione del Fender, la custodiva molto gelosamente e non mi permetteva di toccarla. Mio padre aveva una vecchia chitarra classica, un po’ scassata, di quando aveva diciott’anni, così io la presi e mi misi ad andare dietro al primo album dei Maiden che avevo, ovvero The Number of the Beast, a partire dalla prima canzone, Invaders, bellissima. Provai e riprovai con la chitarra, ma io volevo assolutamente avere un basso. Più tardi, quando mio fratello si comprò un Fender vero, io ereditai il suo Roytek e così iniziai la mia carriera di bassista vero. Poi agli inizi un’altro bassista che ascoltavo molto era Flea dei Red Hot Chili Peppers. Poi, tornando al metal, mi colpirono moltissimo i Sepultura e i Megadeth: quando ho sentito per la prima volta Rust in Peace sono impazzito, tutti i giorni cercavo di tirare giù a orecchio qualcosa, una canzone, una frase. 

Chi menzioneresti come tuoi bassisti di riferimento?

Beh per primo Steve Harris, che è “mio padre”, poi il già citato John Myung, che mi ha spinto a migliorare la tecnica per fare cose più complesse, poi, da quando ho conosciuto gli Archspire nel 2017, Jared Smith

… Eh sì, tu tra l’altro assomigli un po’ a Jared Smith

Hahaha, si, in effetti siamo alti uguali, per il resto no… Poi Dominique Lapointe [dei First Fragment] su cui mi sono plasmato, perché l’approccio molto classico che ha lui ce l’hanno in pochi. Ecco, questi quattro sono i bassisti più importanti per me e per la mia formazione, poi c’è anche Flea, come ti dicevo, che per me è stato importante, anche se io sono metallaro e lo sarò sempre.

Flea è stato un classico, specialmente qualche tempo fa, perché è uno slappatore abbastanza abbordabile se si vuole imitarne lo stile. In molti hanno la “fase Flea” agli inizi.

Si è vero. Parlando di stili che volvevo imitare, mi ricordo che quando andavo a lezione di basso, il mio insegnante mi faceva portare almeno un pezzo al mese che dovevamo studiare insieme, però mi aveva vietato black metal e death metal, perché per lui era solo casino. Pensa che per lui già Steve Harris era troppo sporco e non si poteva sentire, quindi niente metal a lezione.

Parecchi insegnanti, anche alcuni che ho avuto in passato, hanno questa considerazione dei metallari, per quanto molti col tempo si siano aperti, anche grazie a musicisti molto seri che, virtuosi o meno, hanno elevato il livello delle composizioni nel metal. Tornando allo strumento, c’è una considerazione che volevo fare con te: molti bassisti sono bravi, ma danno l’impressione di “sfiorare” gli strumenti, cioè quando suonano cose complesse si fanno aiutare molto dall’effettistica per farsi sentire. Una delle cose che mi sono rimaste più impresse dai miei insegnanti degli anni Novanta è che invece lo strumento vada “violentato”, nel senso che bisogna imprimere forza nel tocco delle corde, indipendentemente dal genere che si suona, perché la profondità e l’udibilità del suono nasce dallo strumentista. È pur vero che quando si suona nel registro alto, oppure quando si usano tecniche come tapping e slap, dal vivo il basso non si sente, però la fiducia eccessiva nell’amplificazione o nell’effettistica toglie molto alla personalità del bassista. Tu cosa ne pensi?

Io penso uguale. Ho iniziato a suonare nel 2000 – 2001 e all’epoca non se ne parlava proprio di queste cose. Ho suonato con molti gruppi, avevo il mio John Myung 2 [Yamaha RBXJM2] e andavo diretto con l’amplificatore, che nel mio caso era anche un po’ scassato. Poi mi hanno regalato una pedaliera Boss a 18 anni e ho provato, ci ho fatto qualcosa, ma non ho mai usato gli effetti veri e propri tipo il phaser, perché per me è il “suono”, ovvero l’accoppiata basso e bassista che fa la differenza. Per arrivare a questo, allenavo duramente le tre dita della destra in modo da essere sempre più forte e veloce: mi ero fatto dei guanti tagliati sulle punte, ci mettevo dentro delle monete da 2 centesimi per appesantirle e stavo ore a suonare così per fare ginnastica e sviluppare il più possibile l’avambraccio. Uno dei commenti che dal vivo mi facevano era “quanto sei violento sulle corde”, che per me era una grande soddisfazione, poi a un metallaro fa sempre piacere…  Quindi il mio approccio è, come il tuo, forte e violento più che puoi, a meno che non si stia facendo una ballad, allora bisogna essere più tranquilli. In definitiva, per me il tocco dev’essere metallico, si deve sentire la classica catenata contro la corda. Essendo nato con Steve Harris, il mio obiettivo è fin da subito quello di riprodurre il clangore della corda di basso. Poi è chiaro che gli effetti aiutano, anzi fanno miracoli a volte, ma io non li conosco, non li uso: vado con le mani.

E poi c’è il vecchio problema del suono dal vivo… 

Eh già, poi dal vivo la resa dipende da una molteplicità di fattori: le capacità del fonico, l’acustica del locale, l’ego del chitarrista… Sono cose che vanno sempre tenute in considerazione, tutte insieme. Comunque anche suonare in studio o a casa pone sempre dei problemi di ordine tecnico e sonoro. Io quando finisco le sessioni, che poi metto sul mio canale, ne esco sempre sfinito, stremato. Ogni cover che faccio è una grande prova fisica per me.

Tu suoni in un gruppo?

Non suono in gruppo adesso, non ho tempo. È da quando ho iniziato l’università che ho mollato completamente. Ho fatto l’ultimo disco con i miei amici, un gruppetto metal, poi sono andato fuori  dalla mia città per studiare medicina, quindi ho fatto sei anni di università più cinque di specializzazione con turni lunghi e impegnativi. Come conseguenza, ho lasciato il basso per quasi dieci anni. Ogni tanto lo prendevo fuori, ma passava anche più di un anno che non aprissi nemmeno la custodia. Per cui, quello che mi sta capitando in questi ultimi periodi è a tutti gli effetti un ritorno allo strumento. Ho ricominciato dopo che mi sono sposato e ho avuto mio figlio: ho iniziato a fargli vedere il basso, volevo che sapesse che esisteva, così mi sono messo a suonargli qualcosa e, grazie a questo, ho ripreso coraggio. Poco per volta, con pazienza e allenamento, mi sono messo a fare cover di cose sempre più impegnative, fino ad arrivare agli Archspire. Per via dei miei impegni di lavoro, per dei corsi di formazione da fare o da sostenere, perché ho anche la grande passione per la medicina, non ho tempo per un gruppo. Ogni tanto mi sono trovato con degli amici per suonare, ma negli ultimi sette anni mi sarà capitato qualcosa come tre volte.

Quindi l’ultimo gruppo in cui hai suonato sono stati i Picaroon’s Spark?

Ah! E come lo sai?

Tu fai il medico, io faccio il mio mestiere…

Si, i Picaroon’s Spark erano un gruppo di miei amici di Teramo, quando ci suonavo io ero più giovane di loro. Ho suonato con loro per un po’ di tempo, soprattutto dal vivo e ci divertivamo. Poi, dopo un po’, le cose sono diventate più serie, nel senso che loro volevano mettersi a suonare in modo più professionale. Difatti, adesso molti di loro adesso sono musicisti di professione, anche molto bravi e hanno tutti avuto un discreto successo. Io ho sempre suonato per passione, ma d’altra parte ero innamorato della medicina e volevo fare il medico, il che comporta restare fuori casa per molto tempo e, di conseguenza, anche lontano dai propri svaghi.

Che genere facevate?

L’ho sempre definito un “metal leggero”. Di base c’era una grande influenza dei Maiden e ce lo dicevano in tantissimi, era il classico commento che ricevevamo. In realtà non facevamo NWOBHM, anche se ovviamente c’era qualche influenza che ci portavamo dietro. Diciamo che era un metal con sonorità leggere, un po’ rock’n’roll, hard rock con ovviamente delle parti più dure e virtuose. Poi, dopo qualche tempo, arrivò anche un tastierista e i Picaroon’s Spark iniziarono a fare un rock alla Toto, facendone anche cover, fra cui l’immancabile Hold the Line

… E chi non ha suonato Hold the Line??

Taci, guarda, quando la risento mi viene ancora la sindrome da stress post traumatico… Comunque sia, a parte quella canzone, questa “alla Toto” non era la strada che avevamo iniziato, per cui io cominciai a cambiare idea sul gruppo. Poi ti confesso che ci divertivamo lo stesso, però il genere che si faceva iniziò a cambiare troppo e io persi un po’ di interesse. In seguito ho iniziato a suonare in un altro gruppetto prog metal, dove si facevano cover dei Dream Theater, ma durò poco. I Picaroon’s Spark sono stati il gruppo più serio che abbia mai avuto nei miei anni da musicista.

Per adesso escludi un ritorno a suonare con gruppo?

Si, per adesso lo escludo, però non per sempre. Magari, quando per esempio mio figlio crescerà, ci potrà essere uno spazio per pensare alla musica. Di amici coetanei musicisti che hanno voglia di suonare ne ho, per cui spero che magari fra dieci anni potrò tornare a suonare con altri. 

Ringraziamo Ignazio Semproni per il suo tempo e gli auguriamo di farsi sentire sempre più spesso. Nell’attesa della prossima puntata, vi invito di nuovo a vistare il suo canale YouTube e a vedere come suona un medico bassista. (Stefano Mazza)

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