Si fa presto a dire NWOTHM: tanto gentile e tanto onesta pare… (speciale, parte I)
Rilevava poco tempo fa il Tola che ormai due band su cinque in campo NWOTHM sono capeggiate da voci femminili. È un dato di fatto, le Pari Opportunità del Vero Acciaio forse si avvicinano. Non è mica un male. E, lo so, state già dicendo che alla fine parliamo quasi sempre solo di cantanti, ma siate onesti ed elencate quali cantanti di metallo tradizionale sotterraneo oggi fanno leva sull’avvenenza più che sulla tigna. Poche, pochissime. Bene quindi che l’altra metà del cielo dia il suo contributo, che le file in battaglia van sempre tenute ben serrate e serve gente volenterosa. E la cosa in realtà vale anche per il doom, stile nel quale ormai anche abbondano voci femminili. La qual cosa mi offre la possibilità di realizzare un gemellaggio, o vero e proprio crossover, tra due rubriche, questa e In Nomine Doomini, con un tema comune. Quindi con una doppia carrellata di dischi con voci femminili, gentil donzelle che guidano compagnie di ventura, più o meno tradizionaliste e/o apocalittiche. Visto il tema, doveroso partire dal ritorno dei SAVAGE MASTER, originari del Kentucky e attivi da più di dieci anni, non gli ultimi arrivati.

In pratica c’erano già ai tempi della prima risacca di qualche anno fa, quella di Visigoth ed Eternal Champion. Seconda fascia ma con dignità, copertine fantasy e la leadership di Stacey Savage, mistress d’altri tempi, col resto della banda in catene. Dark & Dangerous è l’album del ritorno, a tre anni dal precedente. E in questi tre anni di dischi potenti nel settore ne sono usciti. I nostri del Kentucky han messo fuori un buon disco di metallo non velocissimo e non potentissimo, scuro, non scurissimo, fatto di canzoni anni ’80 semplici e quindi funzionanti (I Don’t Want to Fall in Love). Il terreno di gioco non è diverso da quello dell’ultimo album dei Tower, uscito poi lo stesso giorno, ma la partita non c’è più di tanto. Non una disfatta, ma un gol per tempo lo si subisce. No, però, non pensiate che per le reti inviolate Dark & Dangerous non sia un buon disco. Tutt’altro: ruspante e ruffiano, scorre bene, ha qualche buon episodio, anche preso singolarmente (Devil Rock vi era piaciuta?). Paradossalmente, profilo basso, nonostante l’allure granguignolesco. Non giudicate sempre una squadra dal risultato della partita.
Non esattamente dei giovinastri anche i SANHEDRIN, da New York. Anche loro attivi da una decina d’anni e al quinto disco, dopo l’ultimo di tre anni fa. La formula è un terzetto scarno con Erica Stoltz, la cantante, anche alle quattro corde e due sodali ben affiatati a chitarra e batteria. E quindi, vista la conformazione, gli schemi che si riprendono sono quelli di NWOBHM e US power più essenziali. Ma con gusto melodico, nelle linee vocali e negli assoli di chitarra. Heat Lightning è anche un disco fatto di chiaroscuri, come nella traccia omonima. Non c’è estremismo od oltranzismo e anzi si salvaguarda sempre l’orecchiabilità, mai dimentica dei Blue Öyster Cult (o dei Queensrÿche, ma sempre in versione “asciugata”). Certo, non si disdegna l’immediatezza r’n’r, Above the Light è là a testimoniarlo, con cori quasi hardcore (a NYC ogni tanto questa cosa salta sempre fuori).

La voce della Stoltz non è forse il punto di maggiore forza, non particolarmente lucente o trascinante, ma la scrittura dei brani non offre il fianco a particolari critiche. Prevedibile, forse, ma efficace nel proporre soluzioni che, con l’originalità che al giorno d’oggi ci si può aspettare, suonino fresche e canterine. Così, anche con un po’ di cupezza in più, un bel brano come The Fight for Your Life pone i Sanhedrin nella casellina di quel sottostile del sottogenere NWOTHM già occupata da Time Rift, Blood Star e Tanith. E meritevolmente. Batteria e chitarra fanno un bel lavoro nel portarsi tutta la dinamica su due coppie di spalle soltanto, non sono udibili sovrapposizioni di tracce, sempre una traccia di chitarra soltanto: dal vivo i tre dovrebbero essere quindi bene in grado di riproporre questa energia qua. Anche questo, se ci pensate, fa molto punk/hardcore. La qual cosa non mi dispiace affatto.
Manco troppo dei ragazzini i LADY BEAST, che anzi, son di quella generazione là e sono attivi più o meno dagli stessi anni di Savage Master e Sanhedrin. Vengono da Pittsburgh, Pennsylvania, e sono più classicamente heavy/power e maideniani. Per dire, l’intro di Starborn, dal nuovo album, è preso pari pari da Strange World. Non è simile, è lui. Poi il pezzo è diverso e ci mancherebbe. Il disco nuovo si intitola The Inner Alchemist, pubblica Dying Victims, attivissima. E mi garba il disco?

In realtà così così. Per suono e scrittura la proposta dei Lady Beast mi lascia abbastanza indifferente. Piuttosto ingessata, tra schemi di heavy classico e sonorità troppo “chirurgiche” (leggi: fredde, ma non in senso di una bella tempesta scandinava). Cantante è Deborah Levine, buon carisma, ma nell’interpretazione non esce praticamente mai dal ruolo della tipa tosta. Niente atmosfere, cambi di marcia, solo metallo quadrato e veloce-ma-non-troppo. Ok, ma il fatto è che mancano i ritornelli belli e le strofe memorabili, perché la formula può essere quella che è, ma poi se ti venisse da cantare le canzoni passerebbe tutto. Non ne risalta una, invece, né resta in memoria. Magari un po’ Inner Alchemist stessa, che ha un ritornello un po’ più compiuto e dickinsoniano, ma il pezzo sotto resta un po’ loffio. Per completisti che non si cambiano mai l’armatura di gommapiuma. (Lorenzo Centini)

Tutto da ascoltare. Noi Defender approviamo.
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