BOB MOULD – Here We Go Crazy
Il potere delle parole, delle recensioni, di un articolo. Se oggi, con un tot di diversi sistemi di streaming immediatamente reperibili che ti danno la possibilità di accedere – più o meno – a tutto l’umano creato, articoli e recensioni servono più che altro ad approfondire, ad avere un’opinione di una penna fidata, o a litigare sui social, una volta servivano anche ad immaginare ciò che, sborsando i soldi, avresti potuto ascoltare.
Non sto dicendo che “si stava meglio quando si stava peggio”: pur comprando tuttora tanti – troppi – dischi, fruisco quotidianamente e con soddisfazione dei predetti servizi, ma quella sensazione di dover “immaginare” quello che leggevo sulla carta, un pochino la rimpiango. Per dire, da adolescente, per anni ho immaginato come suonassero gli Atheist, all’epoca divenuti introvabili, e ricordo, un po’ più grande, arrivato ormai a Roma, di essermi perdutamente innamorato degli Husker Dü senza averne mai ascoltato una nota, solo dopo averne letto, proprio sulle pagine di Metal Shock, in un articolo di Matteo Cortesi in cui si parlava della cover degli Anthrax di Celebrated Summer. Ricordo che in una pausa tra due lezioni, mi recai dal glorioso Hellnation in Via Nomentana per chiedere a quell’immenso personaggio chiamato Robertò se avesse qualche disco degli Husker Dü, e ricordo ancora come gli si illuminò il volto quando capì che non ne avevo mai ascoltato una nota. Ritornai a casa con New Day Rising (tuttora il mio preferito), Candy Apple Grey e Land Speed Record, e da allora sono diventati uno dei, boh, miei dieci gruppi preferiti di tutti i tempi, teorizzando audaci proporzioni in stile Lennon : McCartney = Mould : Hart (con la variante Chilton : Bell, ma quella è un’altra storia).
Il mio amore per gli Huskers mi ha portato ad approfondire anche i percorsi solisti che si sono dipanati dopo lo split – con un tour in fieri – dopo quel clamoroso Warehouse: Songs and Stories che ha chiuso la parabola del trio di Minneapolis, con una particolare predilezione per Bob Mould.
Un percorso, il suo, non sempre perfetto, fatto anche di album prescindibili, ma costellato altresì di lavori clamorosi (Workshop o il monumentale Black Sheets of Rain) e che ormai da 12-13 anni ha trovato la sua comfort zone; in cui, comprensibilmente, un artista che non deve più dimostrare nulla a nessuno, che ha creato un sound e che ha fatto la storia (per pochi, o per tanti, non è importante), si è “rifugiato”. Da Life And Times in poi, infatti, la formula è sempre la stessa: puoi esserci il disco più acustico, quello più incazzato (il precedente Blue Hearts), o la via di mezzo come questo Here We Go Crazy, ma il risultato non cambia. Si tratta sempre di bei dischi, di un sano e onesto power pop incentrato sulle chitarre che, nei momenti più tirati, vira verso un punk rock più rabbioso, come in Neanderthal, primo estratto da quest’album, introdotto da una batteria terremotante e da quei soliti tre riff che sono capaci di riconciliarti con il mondo.
Stessa sensazione che si respira nel pop di una Here We Go Crazy, che, a dispetto di un’atmosfera di ostentata serenità, nasconde molte ombre del difficile passato di Mould (su cui consiglio la lettura della notevole autobiografia See a Little Light) nei testi, come sempre a fuoco e incisivi. Così come incisive sono composizioni come la struggente When Your Heart is Broken, che ricorda quasi i R.E.M. di Green, o la doppietta You Need To Shine, con un assolo che sembra uscire da Warehouse, e la dolente Thread So Thin, che, a proposito di testi, riesce a dire tutto in un solo verso: I can see forever in the rearview mirror.
Un disco di fantasmi, rimpianti, ma anche di passione e voglia di continuare a fare ciò che si sa fare meglio nella vita, anche a sessantaquattro anni: imbracciare una chitarra e fare rumore.
E in mezzo a tanti lavori che provano, spesso non riuscendoci, a fare qualcosa di diverso, un album che riesce ad essere così meravigliosamente prevedibile e necessario al tempo stesso è una benedizione. Perché questi trenta minuti di musica magari non saranno indimenticabili, magari verranno sostituiti dalla “successiva mezz’ora” che uscirà fra qualche anno, ma, se ci fermiamo al qui ed ora, bastano a farti stare semplicemente bene. E non è poco. (L’Azzeccagarbugli)


