Avere vent’anni: MOONSORROW – Verisäkeet

Verisäkeet dei Moonsorrow è un capolavoro. È il loro primo disco in cui dal punto di vista musicale non c’è veramente un cazzo da ridere, tutto è estremamente serio e ben calibrato nei suoni e nelle atmosfere. Lo ascoltavo spesso al mattino mentre andavo all’università nelle fredde giornate ventose d’inverno, che a Genova lungo le valli sono particolarmente pungenti, e se per qualche istante chiudevo gli occhi mi ritrovavo non alla fermata del bus ma nel pieno di una tormenta di neve, tra foreste imbiancate, in mezzo a lupi feroci, orsi e giganti di ghiaccio. I precedenti dischi contenevano qui e lì delle parti più leggere con melodie fanciullesche (Tyven e Sankarihauta sul secondo) o danzerecce (Pakanajuhla dal primo) fino a toccare uno stile quasi “pop” (penso sempre allo stacco di tastiera su Jumalten Kaupunki in Kivenkantaja, che sembra uscito dagli Europe). Non che fossero male inseriti: loro in genere trovano sempre una scappatoia per non cadere mai nel grottesco, anzi elevando passaggi che in mano ai più avrebbero fatto crollare tutto il castello, ma su questo disco è come se avessero deciso di fare sempre sul serio.

Da qui in avanti tutta la loro discografia diventa estremamente seria ed evocativa; loro in realtà non nascondono di essere degli allegri cazzari che fanno casino in sala di registrazione, basta leggere i ringraziamenti collettivi del disco in cui si citano Mel Gibson, Russel Crowe, Quorthon e qualche videogame con cui probabilmente si sono cimentati da ubriachi tutto nella stessa riga, ma ad ascoltare il disco sembrano degli emissari di Odino appena scesi da Asgard. E in certo qual modo è questa maschera di serietà che permette di far esplodere il vero potenziale dei Moonsorrow, con brani lunghi e strutturati su cui le melodie, presenti sempre in grandi quantità, costruiscono un’impalcatura quasi narrativa e drammatica che a volte introduce sonorità black più spigolose del solito. L’approccio è quasi sinfonico, gli strumenti fanno la loro parte e ognuno si prende i suoi spazi, ma la struttura è coesa, coerente e dannatamente epica. È dunque grazie alle scelte di missaggio, da sempre un pallino per Henri Sorvali che tende a curarle maniacalmente in prima persona, che risaltano tutti gli elementi del disco: cori baritonali, melodie folk, scacciapensieri, timpani e fischioni delle chitarre distorte.

Il che è perfetto per la prima traccia Karhunkynsi, introdotta dal violino di Hittavainen (il tizio che dei Korpiklaani che esce dalla stamberga col violino, sì, lui) e che non ti molla per tutti i suoi quattordici minuti di durata, partendo con un ritmo cadenzato e marziale per poi alzare gradualmente la tensione e infine esplodere in un finale tiratissimo. Il resto del disco prosegue con ritmi tendenzialmente più compassati rispetto alla traccia di apertura. Haaska, Pimea e Jotunheim sono tre pezzi da novanta tra cui non saprei seriamente quale scegliere, non fanno parte di un unicum e possono essere tranquillamente decontestualizzate e ascoltate separatamente in quanto sono piccole sinfoniette a se stanti. Ognuna di esse contiene non meno di tre temi musicali che si sviluppano e crescono fino al punto che la taiga te la vedi intorno. Piccola menzione per la conclusiva Kaiku, unica canzone vera e propria del disco, acustica e notturna, cantata e suonata tutti raccolti intorno al crepitare del fuoco. Non si tratta di musica complessa o particolarmente ostica e respingente, necessita solo della pazienza di arrivare in fondo al viaggio, e vent’anni dopo ne vale ancora la pena. (Maurizio Diaz)

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