Avere vent’anni: HIGH ON FIRE – Blessed Black Wings

Blessed Black Wings inaugura quella che diverrà una lunga collaborazione con Arik Roper, l’artista grafico che meglio ne saprà rappresentare l’essenza della band anche in maniera visiva sulle copertine. È (era?) opinione abbastanza popolare che sia anche il miglior disco degli High on Fire, affermazione sulla quale posso dire di essere pienamente d’accordo a metà. Di sicuro l’album del 2005 è quello in cui il loro suono prende forma compiuta e definitiva, però io continuo a preferire il primo (ma io preferisco sempre il primo) il quale obbiettivamente non presenta ancora tutte le caratteristiche che definiranno il loro stile in maniera unica, ma resta più digeribile nella sua interezza. Su questo punto ci si torna comunque più avanti.

Per farla semplice utilizzerò un paragone in forma di equazione che dovrebbe essere chiaro anche al lettore più cretino (materia prima di cui Metal Skunk è ricchissimo): The Art of Self Defense sta a Show No Mercy come Blessed Black Wings sta a Reign in Blood. Tanto più che proprio in occasione di questo album si parlò (in maniera piuttosto giustificata peraltro) di svolta slayeriana per la band di Matt Pike. Il terzo album è a tutti gli effetti quello in cui la band abbandona i freni inibitori e si lascia andare ad impulsi primordiali rivelando la propria vera natura. Un’essenza feroce, di un’aggressività anche maggiore rispetto quanto si era visto e sentito in Surronded by Thieves (discone pure quello).

Non si tratta di reinventare la formula, perché gli elementi alla fine sono gli stessi degli album precedenti, ma viene tutto portato all’estremo ultimo: i riff dell’uomo in canottiera sono tra i più cattivi di sempre, i pezzi vanno a trecento all’ora, il cantato sebbene fosse già rozzo di suo assume le fattezze di un grugnito bellicoso che in alcuni frangenti può ricordare un Lemmy al catarro. L’obiettivo, se può definirsi tale, è la perdita di controllo; e viene raggiunto in scioltezza. Questo grazie anche al lavoro di Steve Albini che, sebbene non sia il tipico nome che viene in mente pensando a un gruppo di metallo, è sempre stato uno di quei produttori maggiormente in grado di catturare ed esaltare le asprezze delle band con cui ha lavorato. Tra l’altro pare che il suo apporto si limitò principalmente a piazzare microfoni ovunque e a far suonare il gruppo del vivo, con l’intento di catturarne la furia incontrollata.

Volendogli trovare un difetto, direi solo che questa esasperazione del suono, replicata negli anni, avrà come rovescio della medaglia il rendere gli High on Fire un gruppo un po’ faticoso sulla lunga distanza. Ma in effetti questo semmai è un problema più della discografia successiva che non del disco in sé. Che era e resta una botta assurda. (Stefano Greco)

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