Avere vent’anni: …AND YOU WILL KNOW US BY THE TRAIL OF DEAD – Worlds Apart
Nel 2005 c’era ancora chi scommetteva che il rock potesse sopravvivere, o per lo meno vendere. E questo nonostante fosse un cadavere steso al tappeto e la pistola fumante fosse nelle mani di Joshua Homme. Così la Interscope Universal (mica l’etichetta di autoproduzioni di mio zio), in un contesto già saturo di rapper mainstream non-ancora-homemade (ora la fruizione della musica ha similitudini inquietanti con le classificazioni che il porno ha da tempo), pensa di poter alzare più di due lire da una band dal Texas brutti e pericolosi. Che suonano una musica che potrebbe (dovrebbe) piacere pure a quelli con la puzza sotto al naso che ascoltano giusto il catalogo Dischord per essere sicuri di non sbagliare nulla moralmente. Ma i texani brutti e pericolosi sono una brutta bestia (anche se i nostri in realtà del Texas non sono nativi). Pure se hanno il Dono della canzone. Pure se il disco prima, Source, Tags & Codes, era un cazzo di miracolo che aveva messo d’accordo praticamente tutti, contro qualsiasi pronostico. E ora i pronostici puntavano sul cavallo vincente. Ma il cavallo vincente era geniale e pazzo e la corsa disperata. Serviva forse qualcuno di più furbo e concreto. Ma non c’era, o per lo meno non con lo stesso talento. E così arriviamo a questo Worlds Apart. Un fallimento: non vende ai livelli del predecessore, non sfonda in classifica e riceve critiche non entusiasmanti. E invece è un capolavoro pure questo qui.

La chiave è già in copertina. In quella del disco precedente, sfumata ed opalescente, ci ho messo anni a vederci un volto in primo piano. Magari dovrei parlarne con qualcuno. Invece la copertina di Worlds Apart è sbrilluccicante e satura quanto i colori delle figure, guerrieri di ogni epoca o fantasia, in un unico gigantesco campo di battaglia. È solo il primo segnale, visivo, della grandeur che ci rivelerà ancora di più i Trail of Dead come una band stra-ordinaria ma che anche li condannerà progressivamente ad affievolirsi (sempre scrivendo musica tra il buono e l’ottimo). Worlds Apart magari è l’inizio della china, ma proprio un attimo dopo aver scavallato la cima più alta della corsa. Solo un attimo. Ed è comunque un disco che suscita meraviglia. Ecco, meraviglia è la parola giusta. Perché se mediamente il frastuono si attenua, non si placa l’irrequietezza compositiva di Conrad Keely e Jason Reece. Due che evidentemente non ragionano come la gente normale.
E così: invece di replicare una formula di successo, quella di Source, Tags & Codes, mandano tutto all’aria inseguendo qualsiasi direzione che gli viene in mente; invece di presentarsi seri e rock, riempiono i video di effettacci CGI che fanno sembrare i Power Rangers una produzione mastodontica; invece di scendere a patti col mainstream che ti sta pagando e spingendo, scrivi un testo come quello di Worlds Apart, la canzone (“Look at those cunts on MTV / With their cars, and cribs, and rings and shit / Is that what being a celebrity means? / Look, boys and girls, here’s BBC / See corpses, rapes, and amputees / What do you think now of the American dream?”); e perché non presentarsi con due batterie all’unisono per fare più casino possibile, anche se il disco poi è pieno di situazioni soffici e sognanti, nonostante tutto?
Da ammirare a prescindere, gente così. Poi le canzoni sono grandiose, in Worlds Apart, fluiscono l’una dentro l’altra naturalmente, quasi senza soluzione di continuità, a volte, pur essendo diversissime e ricche, asciutte e sovrabbondanti, ora pompose, ora dirette e schiette, punk. Sì, Wolds Apart è meno assordante di Source Tags & Codes, ma ha canzoni splendide. C’è un’ouverture sontuosa e asimmetrica (Will You Smile Again For Me). Una canzoncina feroce da cantare alla festa di compleanno della vostra prole, se ne avete (Worlds Apart, quella del testo di cui sopra). C’è David Bowie evocato per bene (The Summer of ’91, All White). C’è un uno-due di pizze in faccia (Caterwaul, parossistica e meravigliosa, e A Classic Art Showcase, più meditata ma comunque fragorosa). C’è una mazurca russa (To Russia, My Homeland) e un raga psichedelico che paiono i Beatles che rifanno gli Oasis (Let It Dive). C’è un caldo soul da domenica mattina (The Lost City of Refugee). C’è ancora tantissimo indie rock di origine hardcore, ma meno di prima. Ci sono campane, pianoforti, violini, ogni sorta di ninnolo e suono potesse servire per dare un arrangiamento ancora più sbrilluccicante ad un crogiolo di melodie, ritmi, canzoni universali. Ci sta che non digeriate tanta magniloquenza e che preferiate le prove precedenti, più rumorose e selvagge, ma comunque di dischi così mi pare proprio che non se ne facciano più. (Lorenzo Centini)


Questo gruppo avrà per sempre un posto nel cuore, primo album ascoltato So Diveded, ricordo mio padre che mi diede questi cd ed in mezzo ad alcuni classiconi tipo vitalogy ed l’unplugged dei nirvana c’era questo disco, con questa strana copertina, che tanto mi ricordava un videogioco di serie b, l’approcciai abbastanza scetticamente, non sapevo cosa aspettarmi e poi ci fu una sorta di rivelazione, non era simile a niente, ma era bellissimo e mi innamorai davvero tanto di questo gruppo, piano piano cominciai a recuperare tutti gli altri lavori e non sono mai stato deluso da questi ragazzi, tra l’altro Conrad Keely è l’autore dei bellissimi ed onirici disegni che si trovano all’interno dei vari cd. Mi ha fatto tanto piacere leggere un articolo di questo gruppo di cui così poco si parla.
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