R.I.P. David Lynch [1946 – 2025]

Ricordo perfettamente dov’ero e cosa stessi facendo ogni volta che ho imparato che era morto qualcuno dei miei idoli, persone che non ho mai conosciuto che mi hanno detto di più a proposito della mia vita che non la vita stessa: John Candy, Kurt Cobain, Peter Steele, Robin Williams, Michael Cimino, Neil Peart, Eddie Van Halen, William Friedkin. Per David Lynch è stata più rapida, molto meno poetica e per niente onorevole rispetto a tutti gli altri – seduto sul cesso mentre scorrevo internet dal cellulare; l’ho chiuso immediatamente, ho preferito ignorare le circostanze e lasciare spazio al riaffiorare dei ricordi.

Dune il primo contatto, visto a casa di un amichetto alle elementari che aveva il videoregistratore e la VHS da Canale 5 con ogni stacco pubblicitario mandato avanti veloce – ancora oggi è l’unica versione che conosco a parte i libri. Cuore Selvaggio visto su Tele+ da mio cugino, alla fine la convinzione che il mondo così potesse anche avere un senso. Il film di Twin Peaks in un ex cinema porno (al suo posto ora un negozio della Nike), era vietato ai minori di 14 anni ma il cassiere se ne fregava e faceva entrare tutti comunque; non ci ho capito niente (il telefilm l’ho recuperato decenni più tardi) ma David Bowie e Sheryl Lee erano meravigliosi e il nano era terrificante. Velluto Blu e Elephant Man in rapida successione a un videonolo che sarebbe stato tra i primi a chiudere per sempre, per il secondo poi anni dopo ridere della “critica” di Norm MacDonald (il film è stupido perché il protagonista non assomiglia per niente a un elefante). Lost Highway noleggiato in piena estate l’anno prima dell’uscita italiana in un Blockbuster particolarmente illuminato che teneva anche (pochi) film in lingua originale, visto quattro volte in tre giorni sudando anche dagli occhi: tutto aveva perfettamente senso per me, era esattamente quello di cui avevo bisogno – Patricia Arquette, Robert Blake innesto per incubi terrificanti, Henry Rollins, Richard Pryor, Robert Loggia il gangster più minaccioso di sempre, la colonna sonora fonte inesauribile di epifanie – ancora Bowie, Song to the Siren, il pezzo scritto apposta da Trent Reznor, i Rammstein quando erano tra i gruppi migliori al mondo.

Eraserhead in pellicola in un cineclub che poi si sarebbe espanso fino a diventare una delle più importanti cineteche europee, ai tempi una saletta minuscola; la copia era vecchia, sgranata, il sonoro distorto, i pochi dialoghi incomprensibili, i sottotitoli illeggibili, Jack Nance e la sua pettinatura contro ogni legge gravitazionale parevano uscire dallo schermo, non ero drogato ma mi sentivo come se avessi ingurgitato più trip del necessario, un’esperienza che ricordo come se fossi uscito ora dalla sala. Una Storia Vera visto con mio padre in un’arena estiva nel parcheggio della piazza del mercato che ributtava fuori tutto il calore assorbito durante il giorno, da allora e per sempre il mio preferito di David Lynch. Mulholland Drive due volte al cinema nel giro di tre giorni, poi i pomeriggi in biblioteca a leggere le deliranti recensioni su Cineforum di gran lunga più psichedeliche del film (però moleste, a differenza del film). La prima mondiale di INLAND EMPIRE a Venezia raccontata da amici con una molla che manco una tredicenne al primo concerto dei Take That e la certezza di avere mancato l’appuntamento con la storia; il party di presentazione di INLAND EMPIRE con Enrico Ghezzi che girava per le sale del palazzo telecamerina a mano sempre accesa e un microfono a contatto dove straparlava come fuori sync in maglietta unta su Raitre però dal vero, un flusso dei suoi di cui ora non ricordo che “SIAMO TUTTI DENTRO ALL’IMPERO, SIAMO NELL’IMPERO” infinite volte in infinite variazioni (del film in compenso soltanto angoli bui e qualche flash ogni tanto). La mostra fotografica attraversata in fattanza post-operatoria totale.

Poi l’ultimo avvistamento di Lynch attore in Lucky, in assoluto tra i film che emotivamente mi abbiano travolto peggio del treno di A 30 secondi dalla fine dritto sulla ghigna, dove dialoga con l’immenso Harry Dean Stanton nella sua ultima interpretazione riannodando traiettorie che in fondo hanno sempre proceduto appaiate, a prescindere dalla distanza spaziale. Poi per me poteva bastare così, ero a posto così; sono sceso dal treno come il viaggiatore cerimonioso di Caproni. Mai visto la terza stagione di Twin Peaks, mai visto i corti successivi; una volta un amico ha provato a farmene vedere uno in bianco e nero in cui Lynch faceva domande a una scimmia cappuccina parlante, avevamo fumato troppo e ho lasciato perdere dopo due minuti, non ricordo niente (lo stesso per le collaborazioni nel disco di Danger Mouse e Sparklehorse, la comparsata in The Fabelsman è uno scherzetto divertente ma, parafrasando Swan de I Guerrieri della Notte, fa solo parte di quello che mi è capitato dal 2020 in poi, è tutto merda, il resto lo ignoro proprio). Ma fino al 2017 David Lynch ha reso la mia esistenza migliore, assieme a quelle di svariate decine di milioni di altri; i suoi film che preferisco sono quelli lineari (Una Storia Vera, Elephant Man, Cuore Selvaggio che comunque a parte i personaggi bizzarri inizia, prosegue e finisce), ma le fattanze che preferisco sono sempre state le sue (tutto il resto). In entrambi i casi, tornarci è sempre una gran gioia, nello smarrimento stiloso di donne e uomini che sembrano usciti dai cataloghi di moda più iperreali, calati loro malgrado in locali e stanze e diner che sono tanti sogni lucidi da tanti quadri di Hopper virati LSD, così come negli incubi in bianco e nero che rimescolano il subconscio in una maniera di cui mai è esistito un eguale prima, durante e poi, così come nel potere taumaturgico delle lacrime che sa essere al tempo stesso espiazione, redenzione e trascendenza – Una Storia Vera in questo senso resta qualcosa di vicinissimo al detonatore psichico definitivo. E allora per un breve attimo essere vivi torna ad avere un senso, e i suoi film barriere dietro cui trovare rifugio dall’entropia e l’incalcolabile crudeltà dell’universo. (Matteo Cortesi)

3 commenti

  • Avatar di Valdrin

    bellissimo articolo, quando muoiono persone così, che hanno lasciato un valore immenso alle persone, almeno quelle che l’hanno voluto cogliere, si sente davvero un grande vuoto, prossimo alla perdita di un parente, a volte anche di più.

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  • Avatar di Valdrin

    bellissimo articolo, quando muoiono persone così, che hanno lasciato un valore immenso alle persone, almeno quelle che l’hanno voluto cogliere, si sente davvero un grande vuoto, prossimo alla perdita di un parente, a volte anche di più.

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  • Avatar di ignis

    Ricordo pure io Enrico Ghezzi, alla presentazione di “Inland Empire” in un cinema torinese.

    Ricordo anche una rassegna con proiezioni dalle 16 alle 24, in cui le giornate terminavano con gli episodi di Dumbland…

    Onore al Maestro!

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