Recuperone black metal 2024 – quarta parte

Chitarre acustiche, arrangiamenti d’archi, flauti, luci soffuse… Inizia così I, il disco di debutto dei romani AITA – moniker importante, il dio etrusco degli inferi – un più che notevole esempio di atmospheric/melodic black metal ibridato con il dungeon synth. È un po’ la moda di quest’ultimo periodo, ma c’è modo e modo di proporla, e se tutti i dischi fossero come questo non so cos’avremmo da lamentarci. Qui l’atmosfera è l’avamposto, ciò che va difeso a tutti i costi per onore della bandiera, e gli Aita prendono tutto alla lettera, portandoti in una battaglia che va vinta obbligatoriamente.

Si rinvengono (sembra quasi ovvio) marcate influenze Summoning, quelli più recenti azzarderei; ma i pezzi contengono cospicue parti decisamente più tirate, ormai assenti nei maestri austriaci. Il disco è costantemente infuso di melodie non distanti dal soave, dall’evocativo, dall’epico, e ottiene un simile eccellente risultato con ogni mezzo, grazie anche a tastiere che si propongono in miriadi di soluzioni e arrangiamenti differenti; sono gli up-tempo e lo screaming che lo tengono agganciato per quanto possibile al contesto black metal, oltre a prevalenti atmosfere come di battaglie all’ultimo sangue in mondi altrove. Attenzione, gente: se vi piace il black molto d’atmosfera, melodico e non eccessivamente truculento, ad aver scritto una delle sorprese dell’anno sono i nostri conterranei Aita. Mi tocca ribadire che i loro testi, in italiano, sono bellissimi ma spesso non riescono a seguire la metrica delle composizioni. Io la penso così, che volete farci? Tutto il resto, quindi la stramaggior parte, è da summa cum laude. Il nome del vento e Oltre le nevi sono da lacrime agli occhi, pensateci. In digitale o in CD fisico uscito in pochissime copie per la indie Earth & Sky productions.

Sono francesi, in attività da poco meno di un lustro e Scars of Yesteryears è il loro terzo full, seguente a due album buoni ma non indimenticabili. In quest’occasione si deve per forza rimarcare un prodigioso balzo in avanti degli INHERITS THE VOID, perché il nuovo disco è proprio di un altro pianeta. La cosa fatta da francesi meno francese che abbiate mai ascoltato. Un pianeta sul quale hanno girovagato esploratori del calibro di Dawn, Sacramentum e persino – senza tema di scrivere eresie – i celebratissimi Dissection.

 

Rispetto ai loro illustrissimi colleghi i ragazzi arrangiano i pezzi con qualche tastiera in più, ne tengono una discreta quantità in sottofondo in modalità coro epico, ma per tutto il resto del lavoro, quindi 44 minuti scarsi divisi in otto episodi (da manuale oserei dire), ciò che predomina sono gli intrecci di chitarra armonizzati in puro stile swedish death/black metal. Dai continui cambi di tempo agli stacchi acustici, dai passaggi sospesi che preludono al blast più massacrante, dallo screaming penetrante al quasi-growl digrignato e al latrato di thrash-ottantiana memoria, in questo disco c’è poco che si discosta dalla perfezione. Difficile segnalare un solo brano per invogliarvi all’ascolto, qui sono tutti allo stesso (altissimo) livello. Ciliegina sulla torta: il disco è stato masterizzato da Dan Swanö, e se ve lo tabaccate bene qualche ombreggiatura di Edge of Sanity era-Crimson ce la scovate. Come un cognac d’annata, le sfumature si percepiscono tutte solo con calma e meditazione.

Anche il nuovo ARKUUM è bellissimo. Arriva sei anni dopo il già prelibato Die Letzte Agonie e pensate: è appena il terzo album in 11 anni di esistenza. Nati come progetto solista di Arkas nel 2013, oggi una band vera e propria di 5 elementi, non sbagliano una nota che sia una né ne mettono di superflue, illogiche, avanguardistiche o quant’altro. Hier ist Kein Licht è 35 minuti di atmospheric/post-black metal dal mood delicatissimo: cinque brani soffici, nevosi, divaganti come librarsi in un cielo terso e freddo in inverno in alta montagna.

Melodico sì, anche tanto; ma non zuccheroso o stucchevole, l’album è permeato da quel tipo di melodie dilatate e soffuse che ammaliano e che ti portano ad ascoltare più e più volte l’opera perché non ne hai mai abbastanza. Se poi fuori il tempo è grigio, nebbioso e la temperatura decisamente bassa è meglio ancora. Di preferenza le composizioni sono lente e si liquefano in passaggi acustici di pura atmosfera in frequenti occasioni, ci sono tuttavia anche passaggi tirati e veloci in grado di soddisfare la vostra necessità di violenza. Gli Arkuum oggi non sono inquadrabili nella classica definizione di black metal; forse solo per la voce, che però è anch’essa più death/black che canonico screaming. Il pubblico al quale si rivolgono però è l’amante del black/post black non troppo violento, semmai comunicativo ed ispirante meditazione e malinconia. Bellissimo, ma cercate tutti e tre i dischi ché vi fate del bene.

Una novità rivoluzionaria: la intro organistica è davvero bella. Incredibile. Ma Abysmal Specter è un tipo che ha davvero talento, già lo abbiamo potuto apprezzare in alcuni dei suoi altri progetti (Mossen, Curta’n Wall, Old Nick). L’organo gli piace molto e lo utilizza spesso negli arrangiamenti di questo suo debutto con l’entità chiamata BLOODY KEEP (ci sono anche 4 EP precedenti, usciti in cassetta e poi ristampati in vinile, ma sono assai difficili da trovare).

Erroneamente considerato raw black metal, Rats of Black Death, nonostante i topazzi di fogna in bell’evidenza in copertina (versione digitale, quella del disco in vinile è molto più scura e meno ributtante) di raw non ha praticamente nulla: svaria tra il retro-thrash, lo speed metal pure assai melodico, ovviamente anche un bel po’ di black atmosferico (lo screaming tradizionale non può mancare) quando ci mette la velocità, ma non succede molto di frequente, non quanto vi aspettereste se fosse un disco raw black. Voglio dire: è chiaro che di up-tempo ce ne sono diversi, ma l’album è lontano dall’essere un massacro dal primo all’ultimo secondo. Poi ci sono tantissime tastiere che spaziano dal dungeon synth alla musica classica barocca; inoltre il Nostro ha un gusto nel creare melodie anche stravaganti ma di sicuro effetto e facile presa che sarebbe davvero delittuoso trascurare. Il fatto è che Rats of Black Death è proprio un gran bel cazzutissimo disco, tra i migliori usciti quest’anno. Lo si mette nello stereo, passano due minuti e si gira la manopola del volume al massimo.

Risale “addirittura” allo scorso febbraio l’album eponimo di debutto degli sconosciuti URSTRID, probabilmente norvegesi anche se nessuno ha idea di chi siano in realtà. Nessuna intervista, nessuna notizia di chi partecipa al progetto, disco autoprodotto unicamente in digitale, visibilità pressoché nulla. Ci sarebbe quasi da sospettare che sia frutto dell’intelligenza artificiale, perché l’album è l’esatto anello di congiunzione tra Dark Medieval Times e The Shadowthrone.

Sta di fatto che il disco che dai Satyricon non fu mai scritto esce per un’oscurissima entità della quale nessuno è a conoscenza, e di questi tempi oscuri e confusi non è improbabile dubitare persino della sua effettiva esistenza. Chi lo sa? Di certo c’è che, se adorate i primi due capolavori dei maestri norvegesi, adorerete anche Urstrid senza tema di smentita. Perché è vero: non ha un solo milligrammo di originalità, è una clonata megagalattica ed avrebbe senso solo se il progetto fosse un depistaggio di Satyr per pubblicare brani rimasti inediti in epoche remote quando gliene venivano in testa a centinaia, sul peggiore dei quali altri gruppi ci avrebbero potuto costruire una prosperosa carriera; ma di musica come questa, di trve norwegian black metal come questo, non se ne ha mai abbastanza. Pertanto, chiunque siano, ringraziamo gli Urstrid per questi 41 minuti di revival di un passato remoto che non celebreremo mai a sufficienza e che a conti fatti non ci annoia mai.

Per il 2024 è tutto, spero vi siate divertiti. (Griffar)

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