Quel doom Usa al retrogusto di olio motore: THE GATES OF SLUMBER – s/t

Solitamente i Gates of Slumber mettevano in copertina estratti da dipinti heroic fantasy stranoti. Frazetta, Kelly, il meglio, insomma. Stavolta una scritta in caratteri gotici, bianco su nero. Album chiamato come il gruppo stesso. Profilo basso, grado zero. Beh, ci pensiamo noi allora a mettere un bel Frazetta in copertina, qua su Metal Skunk. Però non vi passi per la mente che ci sia dell’epic classico o della NWOTHM, qua dentro. I Gates of Slumber suonano doom, doom e basta. Quello americano, secco, che sa di bourbon e olio motore e che se ne sta in disparte, sul lato del bancone dove c’è meno luce. Sorprende magari un po’ vederli pubblicati dalla finlandese Svart Records, ma nemmeno più di tanto, visto che parecchio underground americano lo stiamo pubblicando in Europa. Spesso da noi, come gli Apostle of Solitude, splendidi, che pubblica la romana Cruz del Sur e che con i Gates of Slumber condividono due musicisti. Chi tiene il filo storico di questi ultimi è però il chitarrista e cantante Karl Simon, al centro della foto in basso. Ne ha persi di amici e musicisti, nei suoi Gates of Slumber. Il bassista originario per overdose di eroina, un batterista per colpo di calore, un altro non ne conosco il motivo. Forse per questo il profilo basso, perché quando era uscito il disco precedente, tredici anni fa, non se ne era andato ancora nessuno dei tre. Che storia balorda.

Comunque, i Gates of Slumber esistono ancora, ad Indianapolis, e suonano ancora doom secco, 100% americano. Magari le tematiche potrebbero essere meno sword & sorcery e più intimiste? Potrebbe essere e comunque vorrei vedere voi. Però è gagliardo, ad entrare nel mood. Dovete amare quel suono rozzo da provincia americana che ha appiccicato addosso. Un po’ sfiga, un po’ (tanto) depressione e forse droga. Il terzetto, essendo basato nel lontano Indiana, non credo sia particolarmente contiguo con la scena della California, né con quella Maryland, anche se ne condovide parecchi elementi. E suona in pratica come un minimo comune denominatore del doom a stelle e strisce. L’andamento grasso, i riff basilari, le melodie che sanno di alcool. Non ci sono svarioni tecnici, ma tanto mood, parola palindroma di doom, poi. Qui il mood a tratti potrebbe assomigliare a quello eroinomane (ma senza riflettori) che ha fatto la fortuna nei ’90 di certo rock americano più o meno duro e più o meno alternativo. Così mi viene da pensare con Embrace the Lie, all’inizio. Ma il grosso invece è piuttosto ortodosso, lentezza pachidermica, assoli blues. Si prosegue così, come dei camion, con We Are Perdition e ancora di più con Full Moon Fever. Occhio, son canzoni classiche, degli standard già scritti, forse, come il blues, appunto. Ma una tradizione è una tradizione, questa è la nostra (non per nascita, ma per scelta) ed è bellissima e comunque questi pezzi qui che ai primi ascolti non è che sembrino particolari, poi prendono corpo. Come aromi di distillato, o come strani fumi che fuoriescono da certi vasi misteriosi nell’altro del visir e che poi si trasformano in demoni, ben materiali. Il riff di At Dawn, per dire, è il grado zero, è uno standard, ABC del doom, lezione numero uno. Bene, parte e a voi il collo comincia a fare avanti e indietro. Non è così? Quest’anno di vecchio doom d’oltreoceano ne abbiamo incontrato, Obsessed, Legions of Doom. Coi Gates of Slumber direi che chiudiamo piuttosto bene l’anno della musica del Destino americana. E domani, l’immediato futuro, sarà quel che sarà. (Lorenzo Centini)

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