El Doom de Los Muertos: breve viaggio nella musica del Giorno del Giudizio messicana
Una canzone, un Ep e un album per affacciarci sulla scena doom messicana. Se ci pensate, tra sacrifici umani precolombiani, processioni per i morti e il culto proprio della Santa Muerte, sono pochi i Paesi al mondo che potrebbero competere con l’immaginario messicano, se applicato alla musica che amiamo di più. Metteteci pure l’inquietante dimora di El Morisco, alleato di Tex Willer, che pur essendo egiziano ha una casa di architettura messicana che mi inquietava quando la incontravo negli albi. Metteteci Alucarda di Moctezuma (che avrete visto tutti, immagino). Ce ne sarebbero di tasselli quasi per parlare di un “gotico messicano”. Ma non lanciamoci in voli pindarici. Limitiamoci, come dicevo, a un brano, un Ep e un album per prendere confidenza con la musica del Giorno del Giudizio dei discendenti di Montezuma. Ah, e se qualcuno riuscisse a segnalarmi un gruppo doom che usa il chitarrone mariachi al posto del basso gliene sarei grato.

Con Las Hijas de Mometzcopinqui si rifanno avanti minacciosi i SANTO FUZZ, dallo stato del Guanajuato, che anticipano il prossimo album, il terzo, con un brano di doom psichedelico perfetto per darsi a certi riti precolombiani che comportano inevitabili sacrifici, tra coyote ululanti e processioni funebri fuori controllo. I Santo Fuzz meritano di essere tenuti sotto controllo. Per certi versi la loro forma sonora anarchica unita ad occultismo dichiarato ne fa una specie di propaggine dell’italian dark sound, in maniera più personale però dei Violet Magick di Città del Messico, pure infoiati con certe cosette nostrane, che abbiamo incrociato di sfuggita un po’ di tempo fa. I Santo Fuzz sono rozzi, grezzi, sgraziati. A recuperare i primi due album, magari non imprescindibili, bisogna dire che un certo stile ce l’hanno. Io li avevo incontrati l’anno scorso per un bel singolo, El Rey del Aquelarre, più convenzionalmente fuzz-doom di questo qua, e pure cantato, dove invece l’anticipazione del prossimo disco è strumentale. Uno svarione psichedelico, psichedelia nera come la magia. Credo che ne riparleremo.
Anche i KING IN YELLOW, da Valle Hermoso, stato di Tamaulipas, li avevo incrociati l’anno scorso per un Ep, omonimo, di stoner doom ortodosso ma gagliardo, cantato in inglese. Di hispanidad poca, solo nel campione all’inizio, che pare preso da una canzone dell’equivalente messicano de I Gufi. Bene, anno 2024, esce un nuovo Ep, Boleskine Dream, dopo un paio di bei singoli, qui contenuti. E constatiamo che i King in Yellow non hanno solo un gran nome, che dovrebbe mandare in sollucchero un cultore di studi lovecraftiani ed affini come il nostro Mazza, ma anche quel bel riferimento al signor Crowley, con tanto di rasoio insanguinato in copertina, che pare suggerire di liberalizzare non solo le droghe e l’assassinio (cit.), ma anche il suicidio. E infatti pure Boleskine Dream segue le stesse coordinate dell’Ep precedente, brillantemente, viaggiando su traiettoria equidistante da Electric Wizard e Uncle Acid & the Deadbeats (a loro volta epigoni dei Wizard, anche se ora stanno rivaleggiando con loro in quanto a influenza sulle nuove leve).

Dicevo, l’Ep contiene i due bei singoli precedenti e altri quattro brani in stile, per un totale di ventotto minuti, tipica durata che mi mette in imbarazzo se considerarla extended o long (la regola è sempre quella: se è più corto di Reign in Blood è un Ep, ndbarg). Ma non è un problema. Nel caso di Boleskine Dream (ancora: gran titolo), di effetti spagnoleggianti o dettagli che vi facessero capire che i quattro non provengono dalle brume albioniche non ce n’è. Però la qualità dei brani è alta. Ottimo l’incipit, con Lenore, gradito il rock’n’roll di Stage Fright. Poi arriva il primo pezzo davvero serio: si intitola Mother Knows… e sì, non è mica originale, per nulla, ma è davvero bella, a partire dall’arpeggio fuzz introduttivo e macabro. Più in là ha la meglio l’ombra del vecchio Jus Oborne, evidente in We Kill non solo nel titolo. E quindi ok, di nuovo, di originale qua dentro non c’è nulla ma i brani non sfigurerebbero in un Wizard Bloody Wizard o in Mind Control. Non sfigurerebbero affatto. I King in Yellow sono bravi per davvero e io spero che ci uniscano un po’ di personalità, quando faranno uscire il primo album intero. E no, non dovrebbero necessariamente infilarci qualche ammiccamento spagnoleggiante o cartoline dalle piramidi azteche.
Chi invece vive proprio all’ombra delle piramidi, Maya però, sono i SANTA SANGRE, da Mérida, stato dello Yucatan. È il loro l’album di oggi e si intitola semplicemente Rock, in maniera piuttosto anonima, dura meno di un’ora e ha una copertina di quelle che causano guai. E signori, uno dei trip dell’anno. Parte Karmacobra e magari ridacchiate per il gioco di parole del titolo ma smettete subito appena siete soverchiati dal fuzz. Che non c’è nulla da ridere. Dura nove minuti, nove minuti di narcosatanismo liquido e sonoro, profumato, rifrangente, salmodiante. Siamo nei territori meno battuti del post-Sleepismo, e in particolare la melodia essenziale e certe sfumature di chitarra sono figlie dei Dead Meadow del primo, indimenticabile disco. Altre degli Earth di The Bees Made Honey in the Lion’s Skull. Una chicca, insomma, per chi prova la mancanza di una certa maniera libera per davvero di intendere lo stoner e la psichedelia.

A proposito di Robert W. Chambers, il pezzo seguente si chiama pure Carcosa. Altri sette minuti, più duri, quasi sludge, intesi all’antica, quasi hardcore. Tra i Wizard più duri e gli EyeHateGod. Pesante, prima di perdersi poi nei contorni sfumati ed inquietanti della periferia della misteriosa città… A seguire un monolite di sedici minuti che fa tanto Sleep (Holy Mountain era) e si chiama Dr. Satan. Tutto giustissimo. Poi certo, insomma, devo dire che l’entusiasmo per l’iniziale Karmacobra non è che rimanga ravvivato per tutta la durata, considerevole, del disco. Disco di necro-narco sataniko doom solidissimo, quindi da consigliare a prescindere ai cultori del genere. Le atmosfere allucinate da ricerche oniriche di sconosciuti regni oltre il muro del sonno tornano sul finale, corredate di fuzz e wah wah nello strumentale Caso Josue con passo leeeeeento, pachidermico e al contempo sospeso nell’ultimissimo trip, anch’esso strumentale, intitolato Nice Guy Eddie. A modestissimo avviso di chi scrive, è lì che si annida il talento in nuce dei Santa Sangre. Competentissimi quando si tratta suonare doom pesantissimo, ma particolarmente ispirati quando si lanciano senza precauzioni in vagabondaggi narcotico/psichedelici con basso gorgogliante e assoli che si intrecciano. Band seria, anzi, scena seria, quella messicana, che sicuro oggi stiamo toccando solo di striscio. (Lorenzo Centini)

Con il doom ha nulla a che fare ma visto che la destinazione oggi è il Messico segnalo i Nostalghia, un misto di black, post qualcosa, jazz e altro. Ha pubblicato in pochi anni una quantità smisurata di album ma il livello è sempre medio-alto, se qualcuno è incuriosito consiglio di partire da “Au milieu de l’hiver”. Stay mariachi!
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