Frattaglie in saldo #61

Due colpi di hi-hat e subito si entra nello spazio profondo coi COSMIC PUTREFACTION, il cui quarto disco dal titolo Emerald Fires Atop the Farewell Mountains, prodotto dalla sempre lodevole Profound Lore, è, come i suoi precedenti, davvero un grandissimo lavoro, senza girarci troppo intorno. I riff di Gabriele Gramaglia servono come colonna portante dei brani e il chitarrista non si limita a spararceli in sequenza uno dopo l’altro, ma li arrangia con un sacco di sentori progressive aiutandosi anche con violoncello e (soprattutto) synth. Molto sapienti e fluide le alternanze tra parti più tirate e parti più lente che aiutano l’ascolto a prendere respiro e aggiungono maestosità all’opera. Un plauso anche alla scelta di continuare la collaborazione con il batterista Giulio Galati, che offre una prestazione superba dando estremo risalto alle ritmiche di Gabriele. Ammetto di aver fatto fatica ad entrarci dentro, ma vi assicuro che una volta iniziato a capirlo sono arrivato al punto di ascoltarlo almeno una volta al giorno. Di qui passa l’avanguardia del death metal che è e che sarà, per cui, se anche voi siete interessati alle evoluzioni stilistiche del genere, è consigliatissimo dare attenzione ai Cosmic Putrefaction.

Rimaniamo nello spazio cosmico anche con Spilling the Astral Chalice dei SIDEREAN, autori di un progressive death metal misto a vaghi elementi di thrash tecnico. Salta subito all’orecchio la tecnica al servizio della musicalità dei singoli strumentisti, che sono tutti e cinque dei veri fuoriclasse. Il lavoro dei due chitarristi Matija Dolinar e David Kocmur è impressionante, la voce di Jan Brišar cambia tono e timbro parecchie volte ma sempre con cognizione di causa aggiungendo grande drammaticità all’intera opera, ascoltate Emerald Age ad esempio. La batteria di Darian Kocmur è di un altro livello e offre una base ritmica con talmente tante sfumature che, se conoscete lo strumento, non potete non apprezzare e stupirvi di cos’è capace di fare. E poi il basso, gente, si sente cosa fa il basso e, cazzo, cosa fa Lovro Babič! Già dal fatto che si sentano BENE le quattro corde (magari il suo strumento ne ha di più, ma facciamo che ne abbia quattro) e che non siano fagocitate dal marasma sonoro fa capire che è un lavoro fatto per essere ascoltato con attenzione. La stratificazione dell’arrangiamento rende il lavoro molto complesso e molto bello da sentire nella sua interezza e nell’atmosfera che crea, ma talvolta ho come l’impressione che i Siderean si complichino un po’ le cose da soli. Qui siamo in ambito prog death dissonante, parola che trovo odiosa ma è per capirci (se avete dei suggerimenti sono sempre ben accetti), quindi se vi piace il genere qui trovate sicuramente musica con cui trastullarvi.

Veniamo ora al death dei finlandesi DEVENIAL VERDICT con il loro secondo disco, Blessing of Dispair. Anche questo lavoro è composto da un death piuttosto complesso, oscuro e cupo nelle atmosfere, e richiede una discreta concentrazione per essere ascoltato. Tuttavia qui, a differenza che nei precedenti due dischi trattati in questo articolo, c’è meno prog. La base è sempre il death metal, ma ho come l’impressione di sentire dei Gojira meno dediti a ritmiche ossessive e ibridati con la ricerca melodica e atmosferica del post-a-piacere metal, giù dalle parti di Neurosis, Cult of Luna e affini, per intenderci. Se, come accade a me, non vi piace né il primo riferimento né tanto meno il secondo, sarete comunque sorpresi in positivo dai finlandesi. La band si prende tutto il tempo per sviluppare le proprie idee e la lunghezza loro congeniale sembra essere attorno ai cinque, sei minuti per traccia. Non fatevi però spaventare dalla durata complessiva di 51 minuti: i brani scorrono via molto bene, sono per lo più appoggiati su tempi lenti che ogni tanto danno spazio a sfuriate blast le quali tuttavia fanno da sostegno a riff chitarristici molto aperti e ariosi. È un’opera incentrata soprattutto sul lavoro chitarristico, infatti per ogni pezzo i Devenial Verdict riescono a costruire una crescente tensione arrivando infine a sprigionare  un momento melodico sempre notevole. È un disco sicuramente più elaborato dell’esordio, e la band ha fatto dei notevoli passi avanti costruendosi una sua personalità in un panorama molto affollato e altamente competitivo come quello del death moderno.

Concludiamo cambiando quasi genere, si fa per dire, perché ora parliamo dei veterani del death svedese THE CROWN per i quali non credo ci sia bisogno di molti altri preamboli. Una volta lessi un articolo su Metal Shock nel quale l’autore scriveva una cosa del tipo che, se sulla Terra fossero venuti gli alieni e lui avesse dovuto spiegare loro il suo genere di musica preferito, gli avrebbe fatto sentire i Sodom perché erano semplici, diretti e senza troppe menate a far da contorno. Ottima scelta quella dei Sodom, non c’è che dire. Se invece gli alieni venissero da me, deciderei di fargli sentire la band svedese. Qualsiasi loro disco, anche il meno esaltante, rimane comunque pregno di un attitudine così sincera e quintessenzialmente underground che anche questo Crown of Thorns non fa eccezione. Ora, per carità, capisco assolutamente le obiezioni di chi li segue da sempre, ci è affezionato, si aspetta qualcosa di più e via discorrendo, ma veramente sareste in grado di affermare che quando sentite la traccia di apertura, I Hunt with the Devil, non vi vien già voglia di alzare al massimo il volume e uccidere un po’ dei vostri timpani, e al diavolo l’evoluzione stilistica? Vi dirò, per me questo è un album da top 10 di fine anno. (Luca Venturini)

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