Avere vent’anni: ARCADE FIRE – Funeral
A settembre 2004 sono stati pubblicati due album davvero importanti per la scena rock “alternativa”: uno, di cui vi parlerò nel mischione di fine mese, di enorme successo a livello mainstream, l’altro è Funeral, esordio sulla lunga distanza degli Arcade Fire, tra i dischi fondamentali della scena indie degli ultimi vent’anni. Un disco che era atteso ancor prima della sua pubblicazione, perché già con l’EP omonimo del 2002 si era iniziato a parlare dei canadesi, grazie a quel pugno di brani che facevano intravedere ambizione e talento e che avevano fatto alzare le antenne a fan e ad appassionati di tutto il mondo. Di conseguenza, al momento dell’uscita di Funeral, l’hype era già notevole e dopo la sua uscita diventerà sempre più grande in occasione di ogni uscita della band. Anche perché, senza girarci intorno, Funeral è un album perfetto sotto tutti i punti di vista e rappresenta una delle ultime vere ventate di freschezza e personalità in una scena che progressivamente si è andata appiattendo con il passare degli anni, nel corso di questo nuovo millennio.
Intendiamoci, non sto facendo un discorso malinconico, “reazionario” e da vecchio che grida contro le nuvole: escono tuttora dischi eccellenti, anzi, il livello medio generalmente oggi è più elevato di quello di qualche anno fa, ma di gruppi davvero personali di area alternativa, in grado di fare breccia anche nel grandissimo pubblico, ce ne sono sempre meno. Si potrebbero citare i Fontaines D.C., soprattutto dopo l’enorme successo di Romance, ma è ancora presto e comunque non sarebbe la stessa cosa.
Perché quando è uscito Funeral, davvero non c’erano band che suonavano come gli Arcade Fire. Nessuna.
E se ci penso, ancora oggi è difficile trovare termini di paragone che magari sarebbero più semplici con alcuni dischi successivi – lo straordinario Reflecktor e il discreto Everything Now – ma per i primi album, pur essendo presenti e riconoscibili diverse influenze (da Springsteen ai Broken Social Scene, da David Bowie ad alcune cose dei Pavement), lo stile degli Arcade Fire è davvero un qualcosa di profondamente personale ed unico. Tanto musicalmente quanto tematicamente. Perché, pur non essendo un concept, Funeral ha un sentire comune che lega tutti i brani, segnati da alcuni lutti delle due voci del gruppo, Win Butler e Rene Chassagne (coppia anche nella vita), che è immediatamente identificabile. Ascoltando le varie sezioni della monumentale Neighborhood – che passano da un rock quasi da stadio al folk più intimo della quarta parte – o la giustamente celebrata Rebellion (Lies), si comprende, infatti, che Funeral altro non è che è un coming of age fatto disco, una celebrazione al tempo stesso dolorosa e vitale della fine dell’infanzia e dell’adolescenza e di quel passaggio dal “piccolo regno” al mondo reale.
La sintesi è: crescere fa schifo, devi iniziare ad affrontare dolore, perdite e difficoltà, ma anche in tutto questo si trova ciò per cui vale davvero la pena vivere.
Il tutto scandito sia musicalmente che a livello di testi in modo estremamente vario, eclettico, ma sempre convincente. Un viaggio nella memoria personale dei componenti del gruppo, come in Haiti in cui Chassagne ricorda la sua terra natale mai vissuta e che mai vivrà, o la melodrammatica Crown Of Love, su sensi di colpa e struggimenti che si apre, in modo del tutto inaspettato, di luce e di positività in un finale forsennato, in cui su un beat quasi “disco”, si ergono degli archi a dir poco perfetti.
Un disco fatto di contrasti, di chiaroscuri, di veri e propri inni da gridare al cielo come nella celeberrima Wake Up, che ancora oggi infiamma le platee di tutto il mondo ed è capace di commuovere ed esaltare allo stesso momento. Sentimenti antitetici che si abbattono sull’ascoltatore simultaneamente, come solo in pochi riescono a fare, con un misto di fascino e di dolcezza, come è evidente in brani come Un Anne Sans Lumiere, o nella finale In The Backseat, tra i migliori del lotto, infuso di un pop barocco che, nel break centrale, riesce a prendere tanto dagli anni ’60, che dai ’90, in un ideale cortocircuito temporale che, ancora oggi a distanza di vent’anni, lascia a bocca aperta.
Un esordio incredibile che, al netto di certe asperità o di qualche passaggio eccessivo, resta a dir poco straordinario e ha consentito ai nostri di godere della più assoluta libertà, come testimoniato da una discografia in cui gli Arcade Fire hanno travalicato i generi più disparati, senza paura e infischiandone di premature nostalgie e degli indie boy che si struggono nella vasca da bagno “mettendo su il nostro primo album” (come ironizzano i nostri in Creature Comfort). (L’Azzeccagarbugli)
E se ci penso, ancora oggi è difficile trovare termini di paragone che magari sarebbero più semplici con alcuni dischi successivi – lo straordinario Reflecktor e il discreto Everything Now – ma per i primi album, pur essendo presenti e riconoscibili diverse influenze (da Springsteen ai Broken Social Scene, da David Bowie ad alcune cose dei Pavement), lo stile degli Arcade Fire è davvero un qualcosa di profondamente personale ed unico. Tanto musicalmente quanto tematicamente. Perché, pur non essendo un concept, Funeral ha un sentire comune che lega tutti i brani, segnati da alcuni lutti delle due voci del gruppo, Win Butler e Rene Chassagne (coppia anche nella vita), che è immediatamente identificabile. Ascoltando le varie sezioni della monumentale Neighborhood – che passano da un rock quasi da stadio al folk più intimo della quarta parte – o la giustamente celebrata Rebellion (Lies), si comprende, infatti, che Funeral altro non è che è un coming of age fatto disco, una celebrazione al tempo stesso dolorosa e vitale della fine dell’infanzia e dell’adolescenza e di quel passaggio dal “piccolo regno” al mondo reale.
La sintesi è: crescere fa schifo, devi iniziare ad affrontare dolore, perdite e difficoltà, ma anche in tutto questo si trova ciò per cui vale davvero la pena vivere.
Il tutto scandito sia musicalmente che a livello di testi in modo estremamente vario, eclettico, ma sempre convincente. Un viaggio nella memoria personale dei componenti del gruppo, come in Haiti in cui Chassagne ricorda la sua terra natale mai vissuta e che mai vivrà, o la melodrammatica Crown Of Love, su sensi di colpa e struggimenti che si apre, in modo del tutto inaspettato, di luce e di positività in un finale forsennato, in cui su un beat quasi “disco”, si ergono degli archi a dir poco perfetti.
Un disco fatto di contrasti, di chiaroscuri, di veri e propri inni da gridare al cielo come nella celeberrima Wake Up, che ancora oggi infiamma le platee di tutto il mondo ed è capace di commuovere ed esaltare allo stesso momento. Sentimenti antitetici che si abbattono sull’ascoltatore simultaneamente, come solo in pochi riescono a fare, con un misto di fascino e di dolcezza, come è evidente in brani come Un Anne Sans Lumiere, o nella finale In The Backseat, tra i migliori del lotto, infuso di un pop barocco che, nel break centrale, riesce a prendere tanto dagli anni ’60, che dai ’90, in un ideale cortocircuito temporale che, ancora oggi a distanza di vent’anni, lascia a bocca aperta.
Un esordio incredibile che, al netto di certe asperità o di qualche passaggio eccessivo, resta a dir poco straordinario e ha consentito ai nostri di godere della più assoluta libertà, come testimoniato da una discografia in cui gli Arcade Fire hanno travalicato i generi più disparati, senza paura e infischiandone di premature nostalgie e degli indie boy che si struggono nella vasca da bagno “mettendo su il nostro primo album” (come ironizzano i nostri in Creature Comfort). (L’Azzeccagarbugli)

Disco epocale di un gruppo immenso. Li avevo sentiti nominare, in una sera d’estate mi capitò di vedere un videoclip tratto proprio da questo primo album e fu amore a prima vista.
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