Un Sabbath italiano: Epilogo (Intervista a John Nicolò Martin)

Is this the end of the beginning?
Or the beginning of the end?

E niente, il nostro sgangherato viaggio negli anni ’70 italiani, alla ricerca di fantomatici Black Sabbath danteschi, è finito. E come era prevedibile no, non l’abbiamo trovato un complesso o un disco sconosciuto ai più che avrebbe potuto rivendicare una genitorialità anche italica del metallo pesante, doom e occulto che sarebbe nato (anzi, che stava già nascendo) grazie ai nostri quattro beniamini di Birmingham. Possiamo però dire che abbiamo messo in piedi almeno una playlist di brani sorprendentemente in linea con il lato più heavy ed esoterico del rock di quegli anni e di quelli a venire. Sempre con un carattere originale e a volte persino un po’ all’avanguardia. Ma soprattutto abbiamo aperto cassetti, sollevato tappeti e soffiato su tanta di quella polvere, rivelando aspetti di quegli anni, i ’70, spesso sorprendenti. E gli interrogativi rimasti aperti, parlo per me, sono ancora molti.

Fonte primaria per chi vuole investigare ancora quella che è stata la scena progressiva dello stivale, l’ho ripetuto più volte, è il blog-enciclopedia John’s Classic Rock, di John Nicolò Martin, detto JJ. Inglese di origine, ma milanese di fatto, essendo nato a Milano il 6 settembre 1963 ed avendoci lavorato e vissuto una vita. Riguardo al prog, oltre al suo blog, è stato co-autore de Il Libro del Prog Italiano, curato da Riccardo Bertoncelli per Giunti Editore, tra le pubblicazioni più universalmente riconosciute sull’argomento. Eppure i suoi interessi musicali spaziano ben oltre: collaboratore per Blow Up, Contrappunti, Vinile e Classic Rock Lifestyle, è autore anche del capitolo Milano: appunti di archeologia punk del libro Lo Stivale è marcio di Claudio Pescetelli, sulle origini del punk rock italiano (ma il punk non era nemico del prog?). Fuori dall’argomento musicale, ha pubblicato, assieme allo scrittore Primo Moroni, Dal nomadismo urbano al mangiare il centro, capitolo del volume Milano Ticinese luogo di frontiera emblematico nella metropoli Milanese (John è laureato in architettura ed ha insegnato urbanistica), oltre al saggio La luna sotto casa, una storia dei movimenti sociali e delle controculture milanesi dal secondo dopoguerra ai primi anni 90. Infine, è autore in solitaria anche di Gast(rock)nomia (Storie di cucina e rock’n’roll). Personaggio ben poliedrico, dunque, che si è rivelato subito ben curioso e disponibile quando gli abbiamo chiesto di aiutarci a vedere più chiaro nel guazzabuglio della musica e della società italiane degli anni ’70.

A te piacciono i Black Sabbath?

Mi stai prendendo in giro, vero?

Se mi lasci nel dubbio allora scelgo di prenderlo per un “sì”, anche perché non ammetterei una risposta differente.

Scherzavo naturalmente. I Sabs sono stati uno dei miei primi grandi amori. Diciamo che li ho venerati sino a Technical Ecstasy, poi ho continuato a seguirli per un po’, ma credo che la magia di un Paranoid o di un Sabbath Bloody Sabbath non si sia più ripetuta. Per non parlare di quelle meravigliose digressioni psichedeliche come Orchid, Embryo o Planet Caravan, che era la mia preferita. Poi, dicevo, finito il periodo con Ronnie James Dio – circa 1983 – li ho lasciati al loro destino. Non mi sono mai usciti dal cuore, però. Tant’è che l’invito per la mia festa di addio al celibato, dieci anni fa, riprendeva la cover di Live at Last.

E secondo te sono esistite delle esperienze italiane anni ’70 che, per temi, suono e capacità evocativa, che avrebbero anticipato la musica metal e/o dark dei decenni successivi? Non dico dei veri “Black Sabbath italiani”, ma magari qualcosa di analogo agli Amon Duul II in Germania dell’Ovest o ai Flower Travellin’ Band in Giappone.

Per quanto riguarda i Black Sabbath, io credo che fossero talmente avanti – anche a livello di percorsi individuali – da essere inimitabili. Ancor più in Italia dove, a parte il rock progressivo, eravamo davvero nel giurassico. Sia musicalmente che socialmente. Forse potremmo accostare la loro iconografia più sepolcrale a quella degli Jacula, ma musicalmente ci passa un abisso. Anche due. Stesso vale per la Flower Travelling Band e gli Amon Duul II che erano talmente unici da non costituire un modello esportabile. Voglio dire: potevano essere certamente una fonte di ispirazione, ma musicalmente erano già completi. Non potevi implementarli con nulla. E fu per questo – credo – che i nostri veri anticipatori del metal e del dark furono straordinariamente riconoscibili e spesso anche molto originali. E, anche se si ispirarono agli angloamericani più noti e malleabili (di solito Deep Purple, Grand Funk, Uriah Heep, Led Zeppelin ecc.), dovettero farlo a modo loro. Con pochissimi mezzi a disposizione e in un contesto catto-socialdemocratico che ripudiava sia l’underground sia i suoi protagonisti. Tra i più noti citerei subito il Rovescio Della Medaglia, che fu insuperabile per attitudine, per convinzione e per sound (di album così meravigliosamente rutilanti come La Bibbia e Io Come Io, ne ho sentiti davvero pochi). Menzionerei poi il torrenziale album I Teoremi dell’eponimo gruppo romano, sicuramente i Gleemen di Martha Helmut con Bambi Fossati alla chitarra (il nostro Hendrix), il Balletto di Bronzo il cui Ys sembra un’anticamera del goth, i Forum Livii di Space Dilemma, e il Biglietto per l’Inferno, la cui Confessione era hard allo stato puro. Il tutto senza dimenticare gruppi come i New Trolls che – almeno inizialmente – erano dei selvaggi, la Formula Tre di Alberto Radius, che con Dies Irae ha dato una bella dimostrazione di heavy sound all’italiana, e, se vogliamo, i Semiramis di Michele Zarrillo, gli Ibis di Nico Di Palo, e gli ingiustamente bistrattati Museo Rosenbach.

Ti dico la verità, gli Jacula non sono mai riuscito a prenderli sul serio, almeno fino al disco di Fiamma Dallo Spirito recuperato dalla Black Widow l’anno scorso.

In effetti sembra che, almeno nel caso di In Cauda…, Baroccetti abbia sempre fatto di tutto per diffondere informazioni mistificatorie, se non proprio false. Ma noi gli vorremo sempre bene lo stesso. Con Vittorina (Vittoria Lo Turco, ndr) invece, ho scambiato spesso quattro chiacchiere, e le ho dedicato due special su John’s Classic Rock, di cui lei andava molto orgogliosa. Il suo lavoro del ’72 non l’ho ancora sentito. Immagino sia splendido… come lo è stata lei.

Jacula

Splendido, assolutamente! Invece Biglietto e Rovescio non li ho mai apprezzati troppo. Musicalmente sono heavy, ma mi sembrano ancora ancorati al “mondo prima”, un po’ al beat. Non mi sembra vadano realmente oltre. E poi perché mi pare che la musica sia più che altro il mezzo, il tramite, e che gli interessi di più in realtà il messaggio, religioso o anticlericale che sia.

Considera sempre che tutte le Controculture si sono sempre ispirate a quelle precedenti, o comunque ne sono rimaste influenzate. Sia in senso oppositivo che costruttivo. Una parte del prog italiano, per esempio, è stata per almeno due anni una complessificazione del beat, e poi non ne ha mai abbandonato le tematiche. Per cui nulla di strano se certi valori come la pietà e la morale comparissero spesso. Se poi mi parli di “andare oltre”, beh, quello attiene solo ai geni, ma li si conta sulle dita di una mano.

E invece cos’è che non andava bene dei modelli stranieri, in Italia?

Il problema dei modelli stranieri, soprattutto quelli americani, è che ci vennero sempre imposti. E questo a partire dal Piano Marshall (1945), che trasformò l’Italia in una “periferia dell’Impero”, colonizzò la nostra cultura ufficiale e osteggiò quella indipendente.

Mi pare di aver capito che l’esterofilia non piaceva troppo al contesto “catto-socialdemocratico” che citavi prima, ma nemmeno, specie quella filo atlantica, alle Controculture.

Diciamo che la Democrazia Cristiana, sempre per effetto dell’ingerenza americana, osteggiava o comunque dosava attentamente i prodotti “sinistroidi” o libertari, incluso quelli che venivano dall’estero o ne erano la versione italiana. Il nostro beat per esempio, fu molto bersagliato – e sempre pretestuosamente – sia per questioni ideologiche che di “morale pubblica”. Musicalmente poi, la censura era molto vigile e la musica pop veniva trasmessa col contagocce. Se volevi tenerti veramente aggiornato dovevi sintonizzarti su Montecarlo, Capodistria o Radio Luxembourg.
I movimenti di contropotere invece, vedevano l’imperialismo americano come un fattore destabilizzante e quindi molto pericoloso. Naturalmente – ma è comunque il caso di sottolinearlo – , quando si parla di “americani” in senso negativo si intendono sempre le istituzioni atte alla colonizzazione e al controllo (CIA, esercito, servizi segreti, spie, infiltrati ecc.), non certamente la grande cultura americana del beat, del jazz e del pop.

Claudio Canali, Biglietto per l’Inferno

A me sembra quasi che, vista la politicizzazione di quegli anni, non ci fosse spazio per rock semplice, con le chitarre, canzoni semplici, magari brevi, energiche, coinvolgenti ma facili, piacevoli da ascoltare, senza per forza un messaggio o una filiazione politica. Come se la semplicità fosse vista come rozzezza o ignoranza, o come se il disimpegno fosse visto con sospetto.

In realtà le canzoni “semplici, dirette e ritmate, senza messaggio né coinvolgimento politico” c’erano e ci sono sempre state Ma non erano rock e non potevano esserlo, se non solo in apparenza. Perché il rock, per sua natura, nasce proprio nella metà degli anni Sessanta come musica totale e rivendicativa. “Totale” perché assommava, amplificandoli, tutti gli stili che c’erano stati sino ad allora (RnR, R&B, Beat, Soul, ecc), “rivendicativa” in quanto iniziava seriamente ad occuparsi di quanto accadeva nel politico e nel sociale. Guerra fredda, Vietnam, divario generazionale, contropotere, rapporti interpersonali, autocoscienza, sessualità e così via. Personalmente credo che It’s My Life degli Animals e Satisfaction degli Stones rendano bene la questione, così come tutta la poetica di Dylan che però era più autorale.
Detto questo, mi sembra ovvio che in un’Italia che tra il 1967 e il 1987 visse un conflitto interno tra i più complessi del pianeta, il disimpegno fosse considerato perlomeno un disvalore.

Questo forse non è facile da capire per chi (come me) non ha vissuto quegli anni, ma i successivi (o quelli attuali), in cui il conflitto pare sedato e la società è radicalmente cambiata anche con metodi coercitivi più soft (trasformare le teste in telespettatori e poi in consumatori e poi in follower). Per questo forse resta più facile comprendere (anche per me) la dinamica conflittuale più comune nel rock duro e nel metal (individuo vs società) che non quella sociale, politica e/o di classe degli anni ’70.

In effetti, nell’arco di mezzo secolo, tecnologia, delocalizzazione e neoliberismo, hanno sostituito quella meritorietà del lavoro che valorizzava effettivamente l’economia reale, con sistemi più parcellizzati e discriminatori come per esempio la “gig economy”. E ciò significa che, se prima le rivendicazioni si portavano avanti in forma assembleare, ora sono sempre più demandate al confronto tra il singolo lavoratore e il suo referente. E questo ricade inevitabilmente, come dicevi tu, su una compressione delle tematiche dal collettivo al personale. In più, e questo è molto importante, siccome questo ribaltamento si è compiuto in maniera tanto dilatata quanto netta, ha prodotto anche un lacerante baratro culturale e cognitivo tra l’era, chiamiamola così, paleo informatica e quella attuale. Col risultato che ci siamo arroccati a tal punto sul presente, da ritenere superflua non solo qualunque conoscenza delle memorie e dei conflitti del passato, ma ci stiamo permettendo pure di adeguarlo alle esigenze dell’audience. Vedi ad esempio i biopic e le varie monografie televisive.

Il Rovescio della Medaglia

A proposito di “conflittualità”, visto che è uno dei due parametri con cui giudichi l’Arte e quindi i dischi (l’altro è la “trasgressione”), ne trovi ancora nella musica di oggi?

Piccola precisazione. Io non giudico l’Arte in base a “conflittualità” e “trasgressione”. Questi sono solo i due parametri di base con cui si può iniziare ad analizzare un’opera specifica. Se invece parliamo di arte in senso assoluto, occorre considerare anche un’altra molteplicità di valori che però rende il discorso troppo complesso per essere affrontato ora.
La musica attuale, mi chiedi: sai, essendo la conflittualità un valore biunivoco, di norma nasce e s’innesca in sistemi disposti a recepirla. Per cui, certamente la ritrovi anche oggi. Però parcellizzata in sfere molto più settoriali rispetto ai grandi numeri della seconda metà del Novecento. E questo per effetto di quella individualizzazione di cui dicevamo prima. È una situazione destinata sicuramente a cambiare, ma per ora non so dirti quando e con quali modalità.

Com’è successo che una generazione così straordinaria di musicisti che non aveva spesso molto da invidiare ai modelli anglosassoni (e spesso erano pure oltre) non abbia raccolto quanto meritava e sia finita negli anni successivi ad essere il bacino da cui il pop, anche quello meno nobile, ha pescato turnisti e nient’altro?

Bisogna sempre considerare che, indipendentemente dalla loro bravura o dalla loro incisività, i musicisti sopravvivono quasi sempre al mutare degli stili e delle mode. E infatti è normale ritrovarli – affinati e modernizzati – anche in contesti ed in ambiti successivi.
Per quanto riguarda la considerazione invece, non mi pare ad esempio che, riferendosi al prog italiano, fenomeni come De Piscopo, Tempera, Bandini, Pagani o Tavolazzi, siano stati declassati, o non abbiano più raccolto soddisfazioni artistiche, anzi.

E riguardo alle leve successive che hanno ripreso almeno certe forme dal prog di quegli anni come ti poni? Tipo parte di quella scena che viene definita italian dark sound (anche se vuol dire tutto e niente) che ha preso tanto dal rock occulto, dal cinema gotico ma anche dal vecchio prog italiano: Malombra, Impero delle Ombre, Il Segno del Comando, Arpia…

Allora, riguardo al neo-prog italiano (dark o non dark che sia), a tutte le varie reunion, e alla mania delle ristampe a 180 grammi e 50 euro, io sono relativamente scettico.
Nulla da dire riguardo ai nuovi gruppi ad ispirazione prog, anni Settanta, perché è giusto che ci siano artisti che portano avanti quel discorso. Fabio Zuffanti, Oscar Larizza e Max Meazza, per dire, mi hanno spedito alcuni loro lavori, e sono assolutamente eccezionali.
Stesso vale per le tribute band che, quando sono all’altezza musicalmente e scenograficamente, ti danno delle emozioni insostituibili. Parlo ad esempio dei canadesi Musical Box, che equivalgono ai Genesis del periodo ’72-’74. Quando però – e non faccio nomi per rispetto – mi trovo davanti a delle cariatidi che si riuniscono solo perché “è tornato di moda”, di gruppi di cui è sopravvissuto un solo elemento originale, o di gente che torna in pista solo per far marchette, ecco, allora mi sento a disagio. Ma non è una questione qualitativa, anzi. Col Pittore Volante e Paradiso, La Raccomandata e i Metamorfosi hanno fatto due album da brivido. Il punto è che per me il prog italiano è iniziato nel ’70 ed è finito nel ’77. Punto. Come dire: gli Area oggi (Paolo, Patrizio e Ares) sono solo un’icona. Poi, è chiaro che “business is business” e ciascuno fa quello che vuole. Ma per correttezza, credo che a volte bisognerebbe avere il coraggio di appendere il microfono al chiodo. O perlomeno di usare una denominazione diversa da quella di quarant’anni fa. Per quanto possa adorarli, andare a vedere gli Yes col solo Steve Howe, mi spiace, ma io non ce la faccio. Così come non riuscirei a vedere i Prodigy senza Keith, o i Cars senza Ric e Ben.
Forse… solo se si riunissero i Led Zeppelin con Jason Bonham alla batteria… allora si, brucerei due stipendi. Anche tre. Ma in tutta franchezza, lasciamo davvero che i miti facciano il loro corso. E ci scaldino il cuore per sempre. Del resto sono fatti per quello.
“Who wants yesterday’s papers? / Who wants yesterday’s girl? / Nobody in the world”, dicevano i poeti. E avevano ragione.

New Trolls

Il prog è morto, evviva il prog, ma avanti col futuro, insomma. Non sei di sicuro il tipo da fossilizzarsi su una periodo, o su un tema. Il tuo blog è un archivio, che offre anche percorsi di approfondimento indipendenti. Ed è lì, chiunque può accedervi e studiare od esplorare. E ora? Di cosa ti stai occupando? Cosa ti sta appassionando?

Dopo circa tre anni di lavoro ho finito proprio in questi giorni un libro sui “luoghi che hanno cambiato la musica rock” – o che comunque ne hanno determinato l’evoluzione – e di conseguenza su quelle persone che li hanno gestiti e trasformati in icone della cultura contemporanea.
Si parte dalla nascita del rock’n’roll e si arriva a quella dell’Mp3. Un viaggio lungo quarant’anni esatti quindi, in cui non solo si parlerà di grande musica rock, ma in cui vi accompagnerò dentro quei locali che ne hanno fatto la storia. Vi racconterò di com’erano prima di diventare dei miti, perché lo sono diventati, e naturalmente vi presenterò personalmente tutti i loro protagonisti. Di alcuni forse saprete già tutto, ma il taglio “urbano” del libro, vi restituirà luoghi, fatti e persone in maniera del tutto nuova. E, se vogliamo, molto emozionante.

Dacci allora qualche dettaglio in più, così ce li segniamo…

Si intitolerà I Muri Del Suono, di John N. Martin, ed uscirà per Tsunami Edizioni, da fine ottobre su tutte le piattaforme digitali e nelle migliori librerie d’Italia.

Beh allora, auguri per il nuovo libro e grazie mille, John, per la bella chiacchierata. Ero sicuro sarebbe stato interessante chiedere il tuo punto di vista.

Grazie a te, Lorenzo. Un abbraccio a tutti i lettori di Metal Skunk, e ci vediamo prestissimo.

Il Balletto di Bronzo

E con questo direi che abbiamo chiuso il nostro lavoro, grazie anche al contributo di John. Io però non posso lasciarvi oggi senza un brano, un ennesimo tassello, l’ultimo. E quindi colgo l’occasione per tirare in ballo quello che è stato il complesso più dark, oscuro e gotico di tutti (come John prima giustamente rimarcava), ovvero Il Balletto di Bronzo, ovviamente dopo che l’ingresso dell’efebico, provocatorio e geniale tastierista Gianni Leone ebbe trasfigurato completamente lo splendido complesso hard-(tardo) beat di Sirio 2222. Oggi però non ci addentriamo troppo nella loro vicenda. Ne trovate scritto, fortunatamente, un po’ ovunque, visto il successo postumo che ebbe Ys, l’album del 1972, l’unico di questa incarnazione qui, quella più devastante e macabra. Noi ne estrapoliamo proprio Epilogo, e quale sennò, vuoi banalmente per ruolo di chiusura, vuoi perché per buoni tratti è composto di una frase cupa insistita per basso e chitarra (una specie di riff doom, l’unico che si riesca a rintracciare veramente nell’album) e vuoi soprattutto per il testo:

Solo il freddo
Della morte
Potè sentire
Tra le sue mani
La sua parola vera
Salì dal petto ancora
Ma la sua bocca
Stanca ed immobile restò
Quel grido lo schiacciò
Fin dentro lo straziò
Ad il buio intorno a sè
Poi fu dentro di lui
E buio fu

Purtroppo non ebbe un vero seguito, tanta oscurità. Il Balletto napoletano, trinceratosi in una cascina nei pressi di Rimini, trasformata in una specie di comune, trascinando per mesi una vita a base di sesso, droga e prog’n’roll, si disfece. Gianni Leone, il giovanissimo ed istrionico artefice di una delle primissime forme (e forse la più devastante) di dark sound italiano (nonché collezionista di cimeli occulti e completi fetish), avrebbe proseguito ancora, prima di una breve carriera in proprio tra prog, glam e new wave, pubblicando ancora un singolo ancora a nome Balletto di Bronzo, ma suonato in pratica tutto da lui, intitolato La Tua Casa Comoda / Donna Vittoria. Il lato A ben diverso da quanto fatto l’anno prima dal complesso intero, un brano di fatto pop, con un arrangiamento però minaccioso, con una melodia tesa per piano (non mi meraviglierei di rintracciarla in qualche base rap, tipo Truceklan). Testo meno visionario ma schietto:

Tu non esci perché
Ogni emozione è scomoda secondo te
Quanta noia però
Nella tua casa comoda

Pare parlare di quello che verrà, della fine dell’avventura prog e degli sforzi vivacissimi di una generazione di musicisti e soprattutto di persone vive. Poi tutto cambierà, la musica (non necessariamente sempre in peggio, anzi), le persone, la società, come ha evidenziato John nell’intervista. La fine della stagione del prog italiano possiamo farla ricadere col ’77 (convenzionalmente l’anno dell’esplosione del punk) o magari col ’79 (l’anno del concerto per la morte di Demetrio Stratos, quello della foto in copertina). Epilogo è del ’72, La Tua Casa Comoda del ’73. Paiono entrambi presagi della Fine. Inevitabile. (Lorenzo Centini)

2 commenti

  • Avatar di Fedestroy

    gran bel viaggio nel tempo, pieno di spunti.

    complimenti !

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  • Avatar di Fredrik DZ0

    In effetti, nell’arco di mezzo secolo, tecnologia, delocalizzazione e neoliberismo, hanno sostituito quella meritorietà del lavoro che valorizzava effettivamente l’economia reale, con sistemi più parcellizzati e discriminatori come per esempio la “gig economy”. E ciò significa che, se prima le rivendicazioni si portavano avanti in forma assembleare, ora sono sempre più demandate al confronto tra il singolo lavoratore e il suo referente. E questo ricade inevitabilmente, come dicevi tu, su una compressione delle tematiche dal collettivo al personale. 

    da applausi. Ho sempre seguito questa rubrica pur non amando le sonorità trattate, e questa intervista ne è la degnissima conclusione. Grazie!

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