Ultimi scampoli di sabbia nelle mutande: ulteriore rassegna balneare di stoner e affini
BIRDSTONE – The Great Anticipation
Signori, che classe. Il terzo disco dei francesi Birdstone è, se non una ventata d’aria fresca, una gradevolissima sorpresa. Quaranta minuti di musica ben salda sul blues che però prende a prestito, e non poco, dalla tradizione heavy psych e progressive rock. Un terzetto affiatato, che propone un suono non molto diverso, a dire il vero, da altre band simili, ma lo fa con una personalità debordante. Il disco alterna brani dal piglio più melodico (Eyes on the Ceiling) ad altri incentrati decisamente di più su riff elettrici (Instant Shutdown). Tutti i pezzi propongono una struttura musicale che aiuta a mantenere alta la concentrazione, e riescono ad esprimere al meglio sia momenti di energia esplosiva (Alcyon), sia equilibrati mid-tempo, sia lenti ballate melanconiche (Cinnamon Creek). I Birdstone si dimostrano anche capaci di saper mescolare tutti questi “momenti” in una unica composizione, come ben testimonia il pezzo di chiusura, Méandres, che a tratti, nel verso, si avvicina quasi di più al cantautorato che al rock. Disco consigliato. Pezzi migliori: non saprei scegliere, disco solido, coeso, da godersi tutto di fila.
CRYPT SERMON – The Stygian Rose
Recensione che arriva con colpevole ritardo, ma mi stavo dedicando alla polemica sull’usus pauper e quindi non ho avuto modo di metabolizzare e di scrivere. Recuperiamo con celerità: meglio del secondo, ma non meglio del primo. I Crypt Sermon esordirono nel 2015 con uno dei dischi epic doom forse più belli dell’intero decennio, con dei pezzi clamorosi del calibro di Byzantium e il mio preferito in assoluto, Into the Holy of Holies: roba caricata a pallettoni. Come sempre, come spesso abbiamo scritto anche noi in queste pagine digitali, se il tuo disco d’esordio tocca livelli così alti sin da subito, poi devi sperare che la cosa non si trasformi in un’arma a doppio taglio. Cosa che in parte è successa ai Crypt Sermon, di cui io non ho apprezzato per niente il secondo disco. The Stygian Rose corregge in parte il tiro, e ci presenta una band che prova a ridefinire ancora il suo stile, evolvendosi ma provando anche a recuperare la magica miscela degli esordi, dove l’epicità debordante si mescolava in modo incredibile ad un’aura di mistero. Pezzi migliori: Glimmers in the Underworld, Heavy is the Corwn of Bone, Scrying Orb.
GREENLEAF – The Head & The Habit
Vibes settantiane, tanto nel suono quanto nei testi, per il ritorno dei Greenleaf. Hard rock di qualità, tinto da venature blues, che accompagna l’ascoltatore per poco meno di quarantacinque minuti distribuiti in nove pezzi dalla durata molto eterogenea (da due a otto minuti). Uno dei dischi più equilibrati tra quelli che sto recensendo, e per questa ragione, chissà, finirà in parecchie top ten di fine anno dei siti specializzati. Il sound della band si avvicina parecchio a quello dei Dozer, l’altra creatura di Tommi Holappa anche qui presente nelle vesti di chitarrista, che solo l’anno scorso se n’è uscita con un disco bello tosto, Drifting in the Endless Void, segno che questo è un periodo particolarmente fertile per il barbuto svedese. Un disco ottimo per il clima criminale a cui ci dobbiamo abituare in questa estate da temperature record. Ragionando per cliché: va bene con le pallacce immerse in una piscina ghiacciata mentre si sorseggia birra, ma anche in macchina, mentre si bestemmia imbottigliati nell’ingorgo del GRA. Pezzi migliori: Avalanche, A Wolf in My Mind, The Trickling Tree.
HORSEBURNER – Voice of Storms
Quarta prova in studio per gli Horseburner, classica band con grande potenziale che non si caga praticamente nessuno. Il disco è un concept album. Ci presenta la storia di una ragazza venduta in giovane età come sposa bambina che viene letteralmente posseduta dall’antica dea greca della caccia, Diana. Sotto l’influsso della potente entità, e grazie alle abilità acquisite, crea il panico, devastando la società in cui vive e che l’ha costretta in schiavitù. Così, la band sludge-progressive partecipa alla conversazione sociale sul gender. A me va più che bene, perché lo fa non con dei commenti a cazzo sulla “notizia del giorno”, ma artisticamente, cercando di confezionare il tutto in un prodotto di invenzione, spendendoci del tempo, ragionandoci sopra. Il disco, come sonorità, mi ha ricordato molto Baroness e Intronaut. È un bel disco, il sound non è particolarmente sporco ma nemmeno eccessivamente rifinito. La musica rockeggia e rolla un bel po’, i cambi di tempo sono moltissimi e repentini, ma si dipanano tra riff non indifferenti, da headbang soddisfacente. L’aspetto più meritorio, secondo me, è che gli Horseburner hanno voluto muovere passi avanti dal precedente, e pure buono, The Thief, scegliendo di modificare la loro proposta musicale senza assestarsi in una forma che già aveva dato dei risultati decisamente apprezzabili. A mio modo di vedere, il disco migliore della loro carriera sin qui. Pezzi migliori: The Gift (Intronaut-iana), The Fawn (Baroness-iana), Hidden Bridges, Diana, Palisades (Mastodon-iana), Widow (The Hunt & The Prize). Cazzo, è tutto bello! (Bartolo da Sassoferrato)

Molto interessanti gli Horseburner!
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Vero? Disco solido.
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Sì, l’ho ascoltato solo una volta ma ci tornerò. Le influenze che citi nell’articolo si sentono tutte, soprattutto quella dei Baroness…e devo dire che possono essere un’ottima alternativa alla band di Baizley, dopo le loro ultime prove un po’ scialbe.
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