Avere Vent’Anni: MARK LANEGAN – Bubblegum

Per me è molto strano scrivere di Bubblegum. Al di là di trite annotazioni biografiche sul tempo che passa e che non sembra possibile, lo è perché fu proprio in quel tour che riuscii a vedere dal vivo la più grande voce maschile di tutti i tempi, lo è perché attendevo moltissimo questo album, anticipato dall’ottimo ep Here Comes The Weird Chill, ma lo è ancora di più perché da pochi giorni è stata annunciata l’imminente pubblicazione dell’edizione del ventennale di Bubblegum, che rappresenterà la prima uscita postuma di Lanegan.

Ecco, per me parlare al passato di Mark Lanegan fa ancora strano. Perché per me era una costante, sin da quando scoprii la sua esistenza con gli Screaming Trees durante i miei anni di formazione, o per la sua incredibile ed eclettica carriera solista che ho seguito nel corso degli anni, o per i suoi tanti progetti che spesso mi hanno esaltato. E Bubblegum per molti aspetti è l’ultimo grande album di Mark Lanegan.

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Intendiamoci, di dischi poco riusciti nella sua discografia non c’è spazio, il successivo Blues Funeral, che all’uscita non mi aveva convinto del tutto, con il tempo si è rivelato un ottimo album e i successivi, per quanto imperfetti, contenevano sempre buoni momenti, ma personalmente è con Bubblegum che Lanegan finisce di stupire. Si parte sempre da quella commistione tra rock, blues e folk (anche se meno presente rispetto al precedente, immenso, Field Songs), ma si impone, sulla gran parte dei brani, una “impalcatura” elettronica che diventerà sempre più importante e preponderante in molti dei successivi album. Cosa che si intuisce sin dall’iniziale, dolente, When Your Number Isn’t Up, con quelle percussioni sintetiche che mettono ancora più in evidenza la profondità della voce del nostro in uno dei brani migliori della sua carriera.

Già dal secondo brano cominciano ad arrivare le collaborazioni di cui vive questo album, dove si arriva al culmine del rapporto umano e professionale con Josh Homme, che suona chitarra, basso e batteria su sei brani dell’album. Parliamo del singolo Hit The City che vede la presenza dell’amica PJ Harvey, anche coautrice del pezzo (e si sente), così come per la successiva ballata blues Come To Me, altro apice dell’album. Un disco che, fondamentalmente, pur non raggiungendo i picchi di lirismo e di intensità di lavori come The Winding Sheet, Whisky for the Holy Ghost o Field Songs resta, fondamentalmente, privo di difetti.

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Perché, davvero, che difetti devono trovarsi un album che contiene una gemma di poco più di un minuto come Bombed, o della successiva Strange Religion che sembra uscire da un Oh Mercy di Dylan e che vede la presenza di Izzy Stradlin e Duff McKagan dei Guns ‘n Roses e del fido compare Nick Olivieri? O di Metamphetamine Blues con la seconda voce dell’amico Greg Dulli, o della queensofthestoneagiana Driving Death Valley Blues?

C’è poco da dire, se non, che rispetto ai suoi predecessori, ogni tanto, qui e là c’è qualche lungaggine di troppo e qualche passaggio non proprio riuscito. Ma si tratta di cercare il pelo nell’uovo di un lavoro che sarebbe IL capolavoro di tantissime discografie. Non per Mark Lanegan. Ma quello non è un demerito di Bubblegum, ma è così solo perché di Mark Lanegan, con tutti i suoi demoni, i suoi alti e bassi, i suoi cambi d’umore, le sue assenze, i suoi sprazzi di assoluta bellezza in mezzo alla desolazione più assoluta, ce n’era solo uno. (L’Azzeccagarbugli)

2 commenti

  • Avatar di sciup-1

    Sottoscrivo tutto quanto, album a cui sono molto affezionato, e anche io l’ho visto dal vivo proprio in quel tour. Qui trova un equilibrio perfetto anche nelle parti più elettroniche. Dopo Blues Funeral, che comunque mi era piaciuto, ho sempre sentito una certa forzatura.

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  • Avatar di EXO

    Il mio album preferito di Lanegan, lo so a memoria

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