I Brocas Helm erano i Dead Kennedys dell’epic metal

I Brocas Helm sono davvero un gruppo atipico, tra quelli che possiamo definire i capisaldi dell’epic metal. Sì, perché i californiani sono, assieme agli altri californiani Cirith Ungol e Warlord, ai Manilla Road e ai Manowar, una delle colonne portanti del power/epic americano. Già attivi negli anni Settanta sotto il nome di Prisoner, faticano non poco, tra i soliti problemi tipici dell’epoca pre-digitale, a trovare sbocchi, uscendo solo nel 1984 con Into Battle, e ben quattro anni dopo con Black Death, due dischi fondamentali per chiunque si definisca estimatore del genere. Tra i due album praticamente un’eternità, specie in tempi di fertilità come quelli.

Che Defender of the Crown esca solo nel 2004 è l’ennesimo smacco ad un gruppo che è storico al pari degli illustri colleghi già citati e che mette in atto una visione estremamente personale del genere, non replicabile e mai replicata, forse proprio perché estremamente peculiare.

La formula è quella che prevede la voce baritonale di Bobbie Wright, che evoca sanguinose battaglie come già fatto in precedenza, l’incredibile basso di Jim Schumacher, sempre ricco di spunti melodici, e un taglio a tratti davvero sbarazzino, acidissimo e sarcastico, quasi come fossero, udite udite, i Dead Kennedys dell’epic metal, e senza quindi mai risultare seriosi (Drink and Drive, Skullfucker). Eppure gli arrangiamenti sono quelli di una grande band, che calcola il prossimo passo della fase compositiva fino al minimo dettaglio, con riff, trovate melodiche e sovraincisioni sempre azzaccatissime e praticamente mai banali, e stavolta con l’ausilio, finalmente, di mezzi tecnici di cui non disponevano nei decenni precedenti. Infatti i quindici pezzi sono registrati in maniera chiara ma con il timbro stilistico che li contraddistingue da sempre, che quasi mai spinge sulle basse frequenze e in cui Schumacher fa da controcanto alle chitarre di Wright, più che rassegnarsi alla funzione tipica di “basso continuo”.

Defender of the Crown è un disco che ancora una volta ci dice che non esistono regole scolpite nella pietra per suonare questo genere, e lo fa con quell’attitudine tipica dei Brocas Helm, che sembra sputare in faccia e fare il dito medio a chi vorrebbe un genere sempre fine a sé stesso, che pensa che possa essere fatto in una maniera soltanto, sempre rifacendosi alle formule manowariane dei primi anni Ottanta. E la chiusura è semplicemente pazzesca, con la sinistra Drink the Blood of the Priest, che è un pezzo da brividi, col suo incedere doom in stile vintage, tra teschi, rituali blasfemi, chiappe nude e calici di sangue. Proprio tutta quella roba che ci rassicura.

Da qualche anno non ho grande interesse per questa rubrica, perché considero la prima parte del decennio che stiamo trattando adesso come l’epoca più povera della musica dura in generale, però ignorare questa perla di metallo fatto come si deve sarebbe stato un delitto imperdonabile che non mi avrebbe fatto dormire la notte. (Piero Tola)

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