ULCERATE – Cutting the Throat of God

Federico entrò in cucina muovendosi mollemente, attraversando il caldo che riempiva come un cuscino invisibile l’intera stanza. Raggiunse la fruttiera al centro del tavolo rotondo, quello con il bordo esterno intarsiato di putti rinascimentali, nella speranza che almeno una delle ultime arance che la popolavano, gli ultimi baluardi del mercato della domenica, fosse ancora buona o, perlomeno, abbastanza commestibile. Afferrata la sedia, che giaceva immobile in balia della calura di mezza estate, la spostò dal lato del tavolo e, con poca originalità, ci si sedette sopra. Quando era entrato nel ricco e spazioso locale di quella casa che apparteneva alla sua famiglia almeno da venti generazioni, non aveva nemmeno ipotizzato che riflettere su quell’arancia avrebbe potuto essere, in fin dei conti, un esercizio mentale piuttosto interessante. Quindi decise che era opportuno iniziare dalla forma esteriore, dagli accidenti.

Contemplare la quasi perfetta sfericità del frutto! Sì, certo, soffermandosi con gli occhi, prima, e con il pensiero, poi, sull’omogeneo colore arancione superficiale. Le rugosità, osservabili da Federico sulla scorza esterna di quel frutto che aveva resistito con arcana fierezza a giornate di afrore chiaramente insopportabile dalla specie umana, avevano un che di ripetitivo, di armonico, di matematico, di una matematica misteriosa ed arcana. Se avessero seguito qualche formula precisa, qualche algoritmo cosmico, un piano in grado di imprimere la sua esatta ripetitività, lui non era in grado di dirlo. Si scopriva, infatti, mero spettatore, impotente, di quel mistero arancione che tutt’a un tratto dominava la sua cucina e la sua mente. Quell’agrume si era all’improvviso trasformato in qualcosa d’altro, e le facoltà cognitive di Federico gli gridavano a pieni polmoni che quell’arancia era troppo perfetta per poter appartenere all’ordine della Natura. Ne doveva essere per forza al di sopra. Ma certo! Sì! Ma quale caso? Quella sfera di perfezione era al di sopra della rozza manifestazione sensibile. Il segno esteriore era in realtà simbolo di qualcosa d’altro, di più alto. Il buono, il giusto, il bello si celavano – e nemmeno troppo bene, perdio! – dietro quelle fattezze apparentemente misere, rinvenute appena due settimane prima in una delle tante trasandate bancarelle del mercato della frutta domenicale. Arance ce ne sono tante. Ma non come questa. Come questa… c’è solo questa. Anzi, si potrebbe quasi dire che tutte le altre sono a immagine di questa. Agguantate prontamente le altre arance restanti nella fruttiera, e altrettanto prontamente comparate con l’Arancia primigenia, a Federico questo pensiero sembrò talmente evidente da risultare un truismo. È evidente. È evidente la degradazione che intercorre tra l’originale e le copie. È chiaro che le copie sono fatte da qualcuno che, seppur bravo, non è e mai potrà essere perfetto. Le copie sono solo copie, l’originale è l’originale. Le copie possono al limite essere soggette ad apprezzamento estetico, l’originale di apprezzamento etico. Esige l’etica, l’originale! Non si accontenta del tiepido, pretende l’estremo, lo richiede, lo anela.

Un torrente di pensieri inghiottì letteralmente Federico. Dentro la spessa atmosfera della cucina, rifletté talmente tanto sull’Arancia che quando gli sembrò di aver finito parevano passati circa duemila anni.

Si alzò dalla sedia. Prese il coltello. Tagliò l’Arancia a fette, con il gusto che solo il trasgredire la norma può dare – surrogato morale dell’erezione – e guarnì i cocktail che, nell’altra stanza, i suoi convitati stavano aspettando da ormai cinque minuti.

Posizionati sul vassoio, si stava già incamminando nel soggiorno e la sua attenzione venne catturata da una banana. Ma non una banana qualsiasi… la Banana…

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Nel 2013 pensavo che Vermis non fosse poi un disco all’altezza degli Ulcerate che, sino ad allora, avevano inanellato una serie di dischi talmente clamorosi, e lo avevano fatto con una cadenza così regolare, da far sospettare che qualche grande nume tutelare del death metal – chessò, Chuck Schuldiner – non fosse in realtà morto, ma fosse tornato al suo pianeta di origine e comunicasse con i nostri grazie all’ausilio di un tavolino a tre gambe, o di MSN Messenger.

Oggi, che sono stronzo uguale ma che, a differenza di allora, lo nascondo meglio, mi rendo conto che, appunto, era una stronzata. Vermis è magistrale, come gli altri. Cosa ha a che vedere tutto ciò con Cutting the Throat of God? La risposta è semplice.

Gli Ulcerate, da quando sono venuti fuori, non hanno sbagliato niente. Niente. Cutting the Throat of God è Ulcerate al 100%, death metal per antonomasia, e, ciononostante, suona nuovo e diverso rispetto a tutta la roba precedente. Al netto di testi che, in questo ultimo lavoro, ho trovato piuttosto banali e ripetitivi. Dovrebbero rivolgersi a un paroliere, per le lyrics.

Io non lo so se ciò che scrivono, suonano e producono gli Ulcerate si può inserire nella categoria “capolavoro”, termine piuttosto abusato oggigiorno. Questo lo potranno dire quelli che ascolteranno death metal tra trent’anni; quindi, se tra trent’anni sono ancora qua, magari qualcosa a proposito lo scrivo.

Quello che so è che così, oggi, suonano solo loro. Sono l’Arancia.

Quando uscì The Destroyers of All, nel 2011, il primo pensiero che mi è venuto in mente è “questi sono i nuovi alfieri del death metal”. Da quel giorno, non ho mai beccato nessuno in giro con la maglietta degli Ulcerate. (Bartolo da Sassoferrato)

3 commenti

  • Avatar di Bonzo79

    bene tutto, a parte “afrore” che vuol dire odore acre, non caldo… e, beh, pure le arance in estate mi paiono discutibili

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    • Avatar di Bartolo da Sassoferrato

      La parola è giusta, volevo dire quello, ma rileggendo la frase credo di essermi comunque espresso male, o meglio… mi potevo esprimere più chiaramente. Le arance d’estate, dove vivevo io, c’erano. Ora, in Italia, probabilmente si cominciano a vedere a settembre-ottobre.

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