Rinnegare la Fede e darsi al saccheggio con i PORTRAIT – The Host

Visto che ci avevo preso con tutta quella storia della Guerra dei Trent’anni? Il nuovo album dei Portrait, dopo il formidabile At One with None, è addirittura tutto un concept su di un soldato svedese del XVII secolo. Solo che poi la storia non prosegue su binari storici, alla Barbero, per dire, ma segue le peripezie del suddetto soldato che rinnega la fede cristiana e stringe un patto col Diavolo. Da cui il caprone, giustamente in copertina. Tanti dettagli in più non ne conosco, per cui concentriamoci sulla musica. E allora tiriamola subito fuori la domanda più impellente: questo The Host è formidabile come il disco precedente? Non lo so, non riesco a rispondere. Non dico di sì, immediatamente, ma nemmeno di no. Inizialmente non mi prendeva così tanto. Non è che il vento freddo di matrice Dissection dell’iniziale (dopo un intro) The Blood Covenant mi avesse spiazzato, si sapeva fosse una delle forme che poteva prendere la musica dei Portrait. Boh, forse è quel rallentamento nello special, così banale, che vanificava (quasi) la potenza di un brano del genere. Ah, nel video, che vedete qua in fondo, mostrano pure che il bassista sditalina un fretless e la cosa farà contento Stefano Mazza. Però non mi lamento nemmeno io, il basso nei Portrait non è un supplemento né una frequenza obbligatoria, per cui rompo poco il cazzo e se il bassista loro è tecnico e usa uno strumento che manco saprei da dove iniziare, io, oh: sei meglio te. Però siamo qua per il Metallo e i Portrait ne suonano di quello serio. Basso fretless, ma pochi cazzi. Metallo vecchio, che prende a mani basse dal Fato Misericordioso. Per chi non lo sapesse, ma non lo fa in una maniera macchiettista. Insomma, venendo a The Host, dicevo, com’è? È bello, in realtà, a tratti anche parecchio. Parecchi tratti, la maggior parte dei brani. Qualche riempitivo c’è, ma è fisiologico, perché, se fai un concept album di 74 minuti, per farti girare tutte le canzoni allo stesso livello devi essere un genio.

E i Portrait geni non saranno, non inventano nulla, ma sono seri e bravissimi, per cui gli perdoni ben volentieri il fatto che brani come Voice of the Outsider non siano proprio memorabili (nel caso specifico, una brano à la Virgin Steele con poco nerbo a giustificare la molta enfasi). C’è di meglio, e molto, in The Host. Tipo in una From The Urn che sta proprio là, tra Melissa e Don’t Break the Oath, o in una selvaggia Sound the Horn. O prendete The Dweller of the Threshold. Scapoccio, scapoccio vero, scapoccio puro, e urla nel ritornello. Pure in falsetto. Non esattamente quel falsetto. Voglio dire, il cantante su quelle note alte ci va, ma non è interessato a fare il cosplay del Re Diamante. Poi ci sono diversi frangenti in cui le due chitarre dialogano come (e suonano come) in Iron Maiden, il disco del 1980, il migliore della Vergine di Ferro (change my mind, if you can). Insomma, dei riferimenti abbiamo detto: Mercyful Fate al 70/75%, Maiden e Dissection e spartirsi il resto. Ah, dimenticavo, heavy power ammerregano, come rilevato la volta scorsa. È il dato tecnico. La pancia dice che i Portrait sono ancora là dove ci piace che siano e che, se At One With None globalmente mi piace di più di The Host, non è chissà che problema. Di gente più seria, più cazzuta, più ricca di espressività nel metallo classico, tradizionale e vintage in giro non ne trovate molta.

Poi forse mi sto facendo troppe seghe mentali sul fatto che il Metallo (su cui, attenzione, in origine manco puntavo più di tanto inseguendo piuttosto la modernità, lo “spirito dei tempi”), in fondo, sta diventando uno stile di cosplay come un altro. Purtroppo. Oppure se va bene diventa come il jazz, come dice Barg, cioè che scendi al baretto sotto casa e ci trovi dei sessantenni con gli occhiali in un angolo del locale che suonano qualche cover dei classici per una bevuta gratis, vendendo le copie del loro cd autoprodotto disposte nella custodia aperta della chitarra. Libera offerta. Triste fine. Un giorno prendo il coraggio o l’incoscienza del Belardi e vi scrivo un sermone al riguardo, ma all’originale toscano verrebbe comunque meglio. Comunque insomma: conviene godersi le band fresche (si fa per dire, questi qui stanno in giro da venti anni), anche non originalissime, finché ce ne sono. I Portrait, dicevo, sono una delle band migliori in giro di Metallo classico, pure con quelle espressioni estreme che fanno così anni ’90, a volte. Però non meritano che pensiate a loro come a degli attorucoli di strada, a dei travestiti con le toppe dei gruppi giusti. Parliamoci chiaro, non so se il Metal è morto, ma come minimo sta in ospedale. I Portrait, nonostante tutto, nonostante tutto davvero, suonano freschi. Davvero. E oh: mica suonano moderni. Affatto. Suonano antichi. Tipo che ti fanno venire voglia di indossare una camicia con il colletto e i polsini di pizzo. Ti fanno venire voglia di metterti sul fianco una bella spada con la lama fina e l’elsa ricamata. E una bella piuma sul cappello. Una vera fibbia sullo stivale e via, ti viene voglia di saccheggiare quel bel villaggio pulcioso davanti agli occhi e far passare un brutto quarto d’ora al curato di campagna che ci prova a fare il suo, in quel villaggio. Perché anche se sulle insegne del nostro esercito campeggia la croce, o un santo, sappiamo che in guerra, o nel saccheggio, non è dal Cristo che si faccia ispirare. Insomma, è così che mi immagino le peripezie del soldato al centro del concept. Vedi la guerra nella sua forma più merdosa e meno letteraria. Finisci per prenderci parte, volente o nolente. Capisci le bugie che tu hanno raccontato per arrivare fino a quel punto lì e allora o diserti, o prosegui. Ma a questo punto ti consacri al Male. Si addice di più.

Non vuol dire però che il disco sia solo una discesa agli Inferi, senza un briciolo di speranza. Che non ci sia della Grazia. Prendete l’ultima traccia, di questo disco qui, The Passion of Sophia. Arriva dopo più di un’ora di musica e inizia mesta. Il suono della chitarra acustica (o quel che è) troppo ovattato, a mio avviso. Parte dolente, insomma, ma poi si sviluppa, mid-tempo elettrico e guerresco. Poi sfocia finalmente nel primo “ritornello” (che non ritorna, è una specie di suite), quello sì, quasi leggiadro. Poi forse il pezzo si dilunga troppo, si perde un po’, ma non conta. Quel pezzetto di melodia lì dà benissimo il senso della conclusione di un viaggio fatto di sangue, buio e asperità. Un ultimo anelito di redenzione, forse. Leggiadro, ma troppo effimero. Dopo un’ora di schermaglie, lame e corni di guerra vi resterà forse in mente, sì, ma davvero come un momento di luce arrivato troppo tardi. Dopo un’ora di musica buia, dannata ed avventurosa. Grandissimi i Portrait, ancora una volta. E sì, dai, The Host alla fine è formidabile quanto At One With None. Quasi. (Lorenzo Centini)

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