Death from the North: i NIGHTSIDE fanno finalmente onore al proprio talento
Come un fulmine a cielo sereno ricompaiono dalle tenebrose profondità di un passato dimenticato i finlandesi Nightside con un secondo disco intitolato Death from the North, che io mai avrei immaginato di poter ascoltare, visto che la band capitanata da Beleth (batteria e tastiere) e Serpent (tutto il resto) aveva smesso di esistere qualche tempo dopo quel mezzo sfacelo che fu il debutto The End of Christianity, del quale parlai doverosamente male in occasione del ventennale. Riformatisi in sordina – io non ne sapevo assolutamente nulla – tre anni fa con l’aggiunta di ben quattro nuovi elementi, vale a dire chitarra ritmica e solista, basso e tastiere, i finlandesi fanno gli gnorri e fingono che un quarto di secolo non sia mai trascorso. Si ricordano tuttavia gli errori del passato, leggasi la troppa fretta di pubblicare un disco di debutto raffazzonato, incoerente, masterizzato da un dilettante e chi più ne ha più ne metta dopo lo strabiliante EP Ad Noctum, questo sì uno stramaledettissimo capolavoro che meriterebbe di presenziare in ogni collezione di questo mondo, sfortunatamente ne esistono solo 200 copie e per aggiudicarsene una bisogna mettere a bilancio una cinquantina di euro (fidatevi, sono anche pochi). Quel full di debutto gli ha tarpato le ali, e sì che i Nightside erano da tutti (me compreso) considerati come la next big thing del black metal finlandese, ne avevano tutte le caratteristiche e le potenzialità.
Queste peculiarità riemergono con prepotenza oggi, come se tutto questo tempo non fosse mai passato e i finlandesi fossero riusciti a pubblicare finalmente un disco degno del loro talento. Negli otto brani di Death from the North potremo trovare a ripetizione riff vecchia scuola che strappano brividi ad ogni piè sospinto. Talmente tanti che risulta assai complicato preferire un brano piuttosto che un altro, a partire dall’omonima in apertura, un furente e glaciale assalto di black metal in stile Horna/Sargeist adornato da riff che sembrano stati scritti a metà anni ‘90. Fino al quarto pezzo (impressionante!!) There Won’t Be Another Dawn il disco è una bordata da lacrime agli occhi per la commozione, con un basso in sublime evidenza che conferisce alle composizioni una corposità di raro impatto e tastiere sornione in sottofondo che aggiungono sfumature ai riff precisi e forsennati e molto armonici disegnati dalle due sei corde. Un attimo di respiro ce lo offre la cadenzata mid-tempo The Dying Sun, ovviamente il brano più easy e melodico di tutta l’opera, ma è solo uno stacco temporaneo, perché già dalla successiva Gates of Hell le velocità ritornano ad essere elevatissime, i fraseggi in monocorda vicini a quelle care vecchie raffiche di vento a tempesta che tanto ci piacquero in passato e tanto continuano a farlo anche oggi. Più grezza la successiva Lions, già proposta in una demo dell’anno scorso, di scarsa diffusione anche se (o proprio perché) pubblicata per celebrare il loro ritorno in attività, maggiormente in stile Satanic Warmaster con l’aggiunta delle tastiere.
Il disco non soffre di alcun calo e scorre via a meraviglia convincendo l’ascoltatore a reiterare l’esperienza, è godibile dal principio alla fine, dura il giusto (poco più di 40 minuti), è suonato e cantato alla grande e… e mi fa incazzare come un rettile: se fosse stato questo il loro album di debutto e non quella porcheria di The End of Christianity (tra l’altro, il Fartwork sull’inguardabile copertina ancora non è stato scritto, speriamo che il collega Traversa si spicci perché ho assoluto bisogno di farmi quattro risate), e se si fossero presi il giusto tempo, anziché dare retta alla fregola di gente che aveva l’impellenza di monetizzare un loro più che prevedibile successo commerciale, oggi probabilmente starei recensendo l’ennesimo loro discone e non solamente un secondo album che nemmeno pensavo sarebbe mai uscito, dato che li avevo dati per morti e sepolti non avendo tutti i torti. Il talento emerso ai vecchi tempi lo si ritrova in toto in questa prova, e mi sale il rammarico di quella che avrebbe potuto essere la loro carriera e non è stata. Com’è che cantava quel tizio rauco? Ricominciamo… (Griffar)

Confesso che quando l’ho visto su Spotify pensavo fosse un errore. Ho comunque fatto play con quel sorriso supponente di chi si aspetta già di ascoltare una schifezza, ma al primo riff della prima traccia ero già a bocca aperta e contemporaneamente sono stato rapito da un vortice spazio temporale che mi ha scaraventato direttamente negli anni ’90, e mi ha fatto tornare vogli di inneggiare al demonio e sognare di assaltare i cancelli del paradiso.
Ascolto questo disco in continuazione e mi da sempre un’emozione fortissima, è una bomba assoluta e dà terra a mille mila band attuali, a dimostrazione che i “vecchi” hanno ancora qualcosa da insegnare su come si suoni il Black Metal.
"Mi piace""Mi piace"