Avere vent’anni: DOMINE – Emperor of the Black Runes
Ridendo come crani sparsi al suolo
Dopo guerre perdute, al cielo elevano
Un’eterna risata
(Chesterton)
Per parlare dei Domine e del loro fascino arcano vale la pena citare una poesia di Robert E. Howard, significativamente intitolata Which will scarcely be understood e di seguito riprodotta nella traduzione di Roberta Rambelli, che spiega perché determinate tematiche elevino di per sé il tono e il registro di un’opera. L’autore di Conan e Bran Mak Morn, manifestando una profonda sensibilità tardoromantica intrisa di titanismo e irrazionalismo, vede nella ricerca di temi sovrannaturali e sovrumani una dimostrazione della potenza della mente e della presenza, in quest’ultima, di archetipi e ricordi atavici la cui riattivazione è il vero scopo dell’arte. Una visione in perfetto contrasto con la tendenza materialista e positivista della cultura novecentesca, che al contrario vede in ogni aspetto fantastico una fuga dalla realtà considerata come divagazione vana, disperdente e addirittura pericolosa.
I piccoli poeti cantano cose sciocche
Come certo s’addice alla mente piccina
Che non sogna dei re preatlantidi e non vola
Sul mare tenebroso e inesplorato
Dalle isole fosche e dall’ampie maree
Dove si celano neri segreti misteriosi.
La poesia vera non pensa ai fiori in boccio,
agli uccelli trillanti, all’odor delle rose,
ma ai fiori d’ebano aperti in boschi orrendi
e al muto uccello lugubre annidato
dove tra rami neri spira il vento.
Chi invece si limita a parlare del conosciuto, di ciò che è immediatamente visibile agli occhi, manca l’obiettivo e riduce sé stesso a volare basso nelle aride praterie della banalità. La vera poesia, dice Howard, è concepita nel fondo dell’inferno, nata da neri vermi dentro un guscio chiamato cranio di un poeta. Per assurgere al sublime bisogna quindi prima attingere al putrido pozzo dell’abisso, seguendo l’esempio del Poeta per eccellenza, l’iniziato Orfeo, e dopo di lui Odisseo, Enea, Dante. Puntare alle stelle senza aver conosciuto il loro contrario non può che avere come conseguenza un approccio superficiale e vacuo.
Oh, piccoli cantori, che sapete
Dell’ampie forme viscide striscianti
Dagli abissi ignorati della note
Per assillare il sonno del poeta
Levando a lui la testa sibilante
Beffandolo con occhi di serpente?
Concepite nel fondo dell’inferno
Nascon poesie che infuocano le stelle
Nate da neri vermi dentro un guscio
Chiamato cranio d’un poeta, colmo
Di nebbie ardenti e di fanghiglia d’oro.
Il poeta come iniziato, dunque, che possiede la capacità di guardare la realtà con le lenti della trascendenza e della simbologia. L’artista conosce il mondo nelle sue meschinità, ma sa che c’è qualcos’altro che gli si sovrappone e gli si affianca; altri mondi, altri universi, una concezione del tempo ciclica che si spiralizza fino a diventare un eterno presente, in cui le piccinerie dell’era contemporanea impallidiscono di fronte alle ciclopiche energie del passato – e del futuro – dalle quali ci si illude di poter sfuggire. Ma non è così, e compito del poeta è evidenziare l’impalpabilità della materia e della concezione lineare del tempo e dello spazio. Perché i suoi occhi non sono abbagliati. Un concetto che poi sarà ripreso anche da Moorcock, tanto amato da Enrico Paoli, nel suo romanzo Champion Eternal.
Sa il poeta che la giustizia mente,
e bene e luce sono gingilli vani;
il mondo è un mercato di schiavi
ove i porci comprano e vengono,
e il bestiame muore.
Ma i loro occhi non sono abbagliati.
L’opera poi si chiude con una specie di manuale di scrittura. I toni si fanno grotteschi, in pieno stile tardoromantico, e vengono consigliati i passi da compiere per attingere alla fonte della vera poesia.
Evoca i demoni dall’abisso immane,
poiché il Male trionfi infin sul Bene;
schianta la Porta e fa’ brillare i fuochi,
e saluta ogni mostro come amico.
Lascia le Tenebre scorrere la Terra,
e i fumi immondi ascendere nel cielo,
neri Dei scrutar vergini morenti,
e il mondo suonar d’orrida gaiezza.
Abbatti le are, insanguina le strade,
calpesta la tua razza dentro il fango,
poi, dove il Caos leva il capo di serpente,
sia lodato il Demonio: ed ecco il poema.
Tutto questo potrebbe aiutare a spiegare un concetto che ricorre da sempre nell’epic metal ma che, più in generale, è un tema ricorrente nella storia dell’arte. Il fascino per il barbarico, che nei romantici si palesava con la predilezione per epoche ed autori considerati tali (l’Antica Grecia, l’Alto Medioevo, la cultura norrena, Eschilo, Shakespeare, Dante, fino a quel momento tenuti in minore considerazione rispetto ai corrispettivi speculari stimati come più luminosi: l’Antica Roma, il Rinascimento, la chanson de geste, Euripide, Petrarca, e così via) trova il corrispettivo nella nostra fascinazione per l’epic metal, appunto, questa musica rozza, dal suono a volte quasi amatoriale, spesso cantata da voci improbabili, con tematiche assai sopra le righe. Il motivo per cui noi amiamo in modo così viscerale Crystal Logic dei Manilla Road è fondamentalmente lo stesso per il quale Goethe considerava l’opera di Shakespeare troppo elevata per poter essere rappresentata plasticamente, e quindi più adatta alla lettura (e all’immaginazione) che alla visione su un palco teatrale. E così, la ricerca disperata di demo e materiale inedito di gruppi classici (ma anche black, per molti versi) assume valore simbolico in modo direttamente proporzionale al suo essere percepito come polveroso e viscerale, e rende ogni appassionato di questa musica uno Schliemann dei tempi moderni.
Emperor of the Black Runes è il quarto album dei Domine e per esso vale tutto quanto detto per i precedenti due (il debutto, come ribadito, fa storia a sé), e soprattutto vale il discorso sulle parole epiche fatto per Stormbringer Ruler. È forse il disco con la più alta concentrazione di pezzi diventati cavalli di battaglia dal vivo, e quello in cui la loro poetica si affina e trae consistenza dall’esperienza, pur non cambiando una virgola nell’impostazione. Certo, iniziano a fare capolino quelle influenze celtico-settantiane (in stile Battle of Evermore, per capirci, ma non solo) che poi esploderanno nel successivo e per ora ultimo disco, ma a ben vedere quelle fascinazioni non sono mai mancate nello stile dei Domine.
Parlando di pezzi, qua dentro ci sono cose talmente possenti da farti scoppiare in lacrime ogni volta. Citiamo giusto quelli che non possono essere chiamati altrimenti che capolavori: Battle Gods è il pezzo d’apertura veloce, con la voce sempre in crescendo fino a quell’across the universe they riiiiiiiide che solo Morby poteva cantare; Arioch the Chaos Star riprende una delle figure più enigmatiche e inquietanti del mondo di Elric e la omaggia con una scelta lessicale che sfiora gli apici lirici dell’Epica, quella vera; True Believer è una dichiarazione di intenti, un inno al metallo e a una scelta di vita che col passare del tempo si rivela sempre più l’unica possibile (it’s the only thing I own, I will never let them take it away, true believer till my dying day); e poi c’è The Aquilonia Suite, undici minuti di suite sull’epopea di Conan (nello specifico quella raccontata nel primo film di John Milius) che sono valsi ad Enrico Paoli persino i complimenti di Basil Poledouris, autore della magnifica colonna sonora originale, probabilmente la vetta più alta mai raggiunta dai Domine e uno dei picchi dell’epic metal tutto, che come la sommità innevata di un’aspra montagna di roccia nera si erge così irraggiungibile e superna da poter essere solo rimirata da lontano, vagheggiando della potenza della natura che sfida il cielo e resta immota e immutabile allo scorrere del tempo, muta testimone delle miserie e dell’inanità del mondo.
Ed essendo ritornati ad Howard chiudiamo lo schema anulare del ragionamento, in perfetta analogia con la concezione ciclica della Storia alla base di questo genere di sensibilità. Per quanto mi riguarda questo è l’ultimo grande album dei Domine, e il giorno che non potrò più ascoltarli dal vivo sentirò che qualcosa di magnifico sarà andato irrimediabilmente perso per sempre. Gruppi come questo sono tesori nazionali e come tali vanno considerati e custoditi, perché la loro opera viaggia al di là del tempo e dello spazio e rimarrà in eterno, a dimostrazione di come l’uomo può sfidare le stesse leggi di natura e sfiorare il Sublime. (barg)


Stavolta ti sei superato Barg. Sto iniziando ad andare in crisi di astinenza da Domine live e hai appena buttato un barile di polvere (di loto?) nera sul fuoco. True Believers till our dying day!
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Considerazioni sparse: 1. Una volta ascoltavo Battle Gods in autostrada e mia moglie mi chiese “ti rendi conto che siamo a 160..?” Chiaramente no, non me ne stavo rendendo conto. 2. Lione is for boys, Morby is for men. 3. Sempre Battle Gods: quando, nell’ultimo ritornello, sulla frase “across the universe the ride” Morby invece di salire scende, io mi commuovo, sopraffatto dal Sublime.
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E niente, mi è tornata voglia di ascoltare l’album tutto d’un fiato
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Questo è IL disco che porterei su un’isola deserta: lo conosco a menadito, l’ho ascoltato e urlato a squarciagola piú volte di quante riesca a contare, e ancora riesce a farmi venire il cazzo dritto e la pelle d’oca.
Di quel che hai scritto tu Barg avró capito una parola su tre, ma sulla fiducia ti dico AVE DOMINE AVE DOMINE
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Per un articolo siffatto c’è solo da levarsi il cappello.
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perdiana! Ascolto i Domine e la gioia di vivere (in battaglia e anche no) mi pervade…grandi .
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