Men Guðs hond er sterk: tutt’altro che dolce naufragare nel mare degli HAMFERÐ

Le vacanze estive della mia infanzia sono sempre state una immane rottura di coglioni, tranne quella volta che il mio vecchio mi portò in semi-ignote, e quindi poco frequentate, spiagge siciliane e garganiche. Lì finalmente potei amare la salata solitudine delle onde mediterranee e la salsedine silenziosa che imbeveva i tramonti di metà agosto. Per me, che sono nato e cresciuto fondamentalmente ai piedi delle montagne, da quel momento il mare, quello così lontano dalla cialtroneria della riviera festaiola, cominciò a configurarsi come elemento misterioso e, per questo, affascinante. Questo per dire che sono particolarmente attratto dalla musica ispirata, in un modo o nell’altro, dal mare.

E il 2024 degli Hamferð si apre proprio con un disco “marino”, la cui musica e i cui testi contestualizzano gli eventi del 13 di febbraio 1915. Allora uno dei tanti grindadráp, attività di caccia ai cetacei che occupa un posto fondamentale nella struttura economica delle isole Fær Øer, partito dal villaggio di Sandvík (luogo natale del tastierista) si chiuse in tragedia, con la distruzione di due imbarcazioni e con i relativi equipaggi inghiottiti irrimediabilmente dalle fauci del mare. L’unico sopravvissuto alla catastrofe, marinaio in uno dei due battelli, riflettendo su quanto accaduto pronuncerà poi in un’intervista alla radio la frase che darà il titolo al disco, Men Guðs hond er sterk (Ma forte è la mano di Dio). La storia fornisce quindi materiale su cui lavorare, e l’aura di epica tragicità del disco comunica proprio l’alternanza tra l’inevitabile disperazione e, seppur minimo, una sorta di sollievo.

Gli Hamferð propongono un approccio tradizionale al doom/death metal, genere che maneggiano alla perfezione sin dal bellissimo Támsins Likam (2018). La differenza però è che questo lavoro incrementa leggermente la velocità dei brani, che molto spesso, come si capisce non appena si pigia play, sono rocciosamente energici. Una curiosità in sede di produzione: la band ha scelto di registrare l’intero album dal vivo, in studio, senza ricorrere alle registrazioni multitraccia.

Men Guðs hond er sterk ci propone inoltre melodie particolarmente indovinate, che alle volte hanno un retrogusto alla Opeth vecchia maniera (quelli del periodo Candlelight per intenderci). Qualche citazione space rock la possiamo poi ritrovare in brani come Glæman, e serve a dare respiro dopo le parti musicali più tese. Questo tipo di sonorità sono meno sorprendenti se pensiamo che il cantante (Jón Aldará) ha militato anche nei Barren Earth, già autori di validissime prove in studio che ricordavano, anch’esse, il sound dei colleghi svedesi, estremo sì ma particolarmente ricettivo rispetto a certe “intuizioni” dal sapore pinkfloydiano.

Le parti vocali sono sopraffini e giocano un ruolo chiave nel rendere il disco più coinvolgente. Vale la pena di dire che uno dei momenti più alti dell’intero disco lo troviamo dopo appena un minuto e mezzo, dove tra il rombo delle chitarre svetta una imponente voce tenorile che mi ha fatto letteralmente venire la pelle d’oca. Il buon bilanciamento che troviamo a livello di strutture musicali si ripete anche per quanto riguarda la durata complessiva del lavoro, di poco inferiore ai quarantacinque minuti, e quindi non prolisso.

Men Guðs hond er sterk ci presenta gli Hamferð in ottima forma, forse leggerissimamente meno sorprendenti rispetto a Támsins likam ma comunque sul pezzo, ispirati e concreti. (Bartolo da Sassoferrato)

Un commento

  • A parte l’ultima traccia, col racconto del capitan Findus faroense, il disco è veramente molto bello.
    Ho comprato il CD, dove ci sono anche le traduzioni in inglese. Andrò a vedere il contenuto della narrazione, cui hai già fatto riferimento tu, puntualmente. Ma con tutto il rispetto per l’episodio, hanno buttato nel cesso 6 minuti su 45.

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