You get me closer to God: trent’anni di The Downward Spiral

The Downward Spiral è tra i dischi più importanti della mia vita, soprattutto per quando ho iniziato ad ascoltarlo. Sono sempre stato “il più giovane” in quasi tutti i contesti sociali in cui ho vissuto, sono cresciuto in mezzo a gente più matura e molti – non tutti – dei miei rapporti di amicizia duraturi, li ho intrapresi con persone più grandi di me. Ciò mi ha spinto, soprattutto da ragazzino, a cercare di essere sempre alla pari degli altri: negli interessi, negli argomenti di conversazione, in tutto, alimentando costantemente la mia fame di nuovi stimoli, visioni, ascolti, letture, prescindendo dal loro essere “consoni” alla mia età.

Nel bene o nel male – lo può dire solo un bravo analista – io sono estremamente contento di essere cresciuto così e in questo contesto, nel 1997/1998, quando avevo  all’incirca 13/14 anni, il mio amico Angelo – di dieci anni più grande – un giorno mi ha portato una busta contenente una marea di dischi masterizzati che, in molti casi, hanno significato tanto per me:  Dead Winter Dead dei Savatage, Decade of Aggression degli Slayer, Mental Vortex dei Coroner e, appunto, The Downward Spiral dei Nine Inch Nails. Quest’ultimo per me, all’epoca, ha rappresentato un vero e proprio shock, prima solo a livello sensoriale, e poi, approfondendolo nel corso degli anni, per ragioni molto più profonde.

Photo of NINE INCH NAILS

Sotto il primo profilo, perché non avevo mai sentito nulla del genere, è sicuramente il primo album in ambito industrial che mi era capitato di ascoltare e a distanza di secoli ricordo ancora la mia reazione quando è partita Mr. Self Destruct: il sample di THX 1138 di George Lucas dell’uomo pestato da una guardia, i colpi che si intensificano, accelerano, diventano l’ossatura ritmica del brano. Si apre, anzi, viene divelto il sipario: I am the voice inside your head (And I control you) / I am the lover in your bed (And I control you) / I am the sex that you provide (And I control you) / I am the hate you try to hide (And I control you). A distanza di anni credo che esistano pochi incipit più incisivi di questo nella storia della musica.

Sempre attenendomi – per ora – ad un discorso solo musicale, tutto il disco segue il canovaccio dei primi brani, passando – anche all’interno della stessa canzone – da momenti di foga assoluta, di totale concitazione e alterazione– March of the Pigs, Big Man With a Gun – ad apparenti momenti di calma – Piggy, A Warm Place – ad abissi di disperazione – The Downward Spiral, Hurt. Un’alternanza di registri e sensazioni che tanto nel ragazzino del 1997, quanto nel (quasi) quarantenne di oggi crea una “confusione” mentale difficilmente spiegabile e, all’epoca, un’attrazione per questo oscuro oggetto apparentemente imperscrutabile.

d807135e-0626-4b66-adb6-5bb523b89084_thumbnail_1024

Attrazione diventata ancor più morbosa quando ho iniziato a capire che cosa ci fosse dietro quella musica registrata, tra l’altro, in un autentico teatro dell’ orrore, ossia nella villa in cui è stato perpetrato l’osceno omicidio di Sharon Tate a Cielo Drive, per mano di Charles Manson e i suoi folli adepti. E quella cosa era – come da titolo – una discesa nella spirale discendente di depressione, degrado e disagio che porta ai confini dell’abisso.

Reznor, al culmine della sua dipendenza da alcool e droga, si è letteralmente chiuso in sé stesso nelle mura di Cielo Drive e ha dato sfogo alle sue peggiori pulsioni, creando un suo alter ego, costantemente preda della sua vena più autodistruttiva, portata fino alle estreme conseguenze. Reznor ha definito il “concept” dell’album come “qualcuno che getta tutto ciò che lo circonda in un potenziale nulla” e difficilmente si potrebbe trovare migliore definizione.

Una nichilista discesa negli inferi con l’unico obiettivo di obliterare sé stessi, lanciando nel nulla tutto ciò che ci circonda (fede, famiglia, relazioni), cercando di anestetizzare la propria umanità attraverso sostanze capaci di disconnettere dalla realtà e attraverso il sesso, usato come strumento per raggiungere una catarsi che, però, non è mai salvifica.

117d4b2caa05dec4dffa54ab0c9a207b

Se il sesso è sempre stato un tema importante nella musica dei Nine Inch Nails, in The Downward Spiral è centrale, diventa un’ulteriore droga presente in molti brani e che trova il culmine in Closer, unico brano orecchiabile del disco, in cui viene splendidamente rappresentato nella sua assoluta essenza di esperienza scevra di qualunque romanticismo: elettrizzante, totalizzante (You can have my isolation You can have the hate that it brings You can have my absence of faith You can have my everything), fatta di umori (It’s your sex I can smell), parole gridate senza vergogna (I wanna fuck you like an animal / I wanna feel you from the inside) e desiderio di un climax che porti ad una purificazione, che non arriverà mai (You make me perfect / Help me become somebody else – My whole existence is flawed /You get me closer to God).

Closer, in un certo senso, è l’anticamera per il precipizio che si intravede sin da principio (nothing can stop me now), la cui atmosfera asfissiante si inizia a respirare nella doppietta The Becoming/ I Do Not Want This e che arriva alle estreme ed esplicite conseguenze in brani come Reptile  e nella stessa The Downward Spiral (He couldn’t believe how easy it was / He put the gun into his face / Bang!). Un precipizio che porta all’orlo dell’abisso chiamato Hurt, che è semplicemente una delle canzoni più straordinarie che siano mai state scritte. Un capolavoro talmente universale da attagliarsi alle più disparate situazioni ed esperienze, come nella testamentaria cover di Johnny Cash, tanto immensa quanto l’originale.

mud.jpef

Una canzone sul cui significato, non vi è mai stata un’interpretazione univoca e/o autentica, mantenendo sempre una certa ambiguità, come tutte le cose interessanti della vita. Una contemplazione delle proprie macerie– my empire of dirt– in bilico tra una risalita e il nulla. Un nulla che verrà scandagliato pochi anni dopo in The Fragile – per chi scrive, tra i migliori album della storia – che per me è l’equivalente sonoro delle peregrinazioni interiori presenti verso la metà di Zero K di Don De Lillo. Un abisso da cui Reznor riuscirà a risalire, arrivando ad una proposta più pacifica (a parte qualche scoria presente in With Teeth) e alla gloria (due Oscar!) delle colonne sonore.

Un percorso senz’altro virtuoso, ma che ha privato Reznor di quella morbosità che continua a comunicarmi tanto anche dopo decenni, anche quando mi parla da contesti che non mi appartengono. Perché, citando l’ottimo scritto di Francesco Farabegoli sul suo “Bastonate per posta” di pochi giorni fa, “la parabola umana di Trent Reznor negli ultimi vent’anni è stata confortante: è uscito da un periodo oscuro, è un musicista di grandissimo successo, sembra molto felice e lavora alle sue condizioni. Non sono mai riuscito a perdonarglielo davvero”.

The Downward Spiral ha compiuto trent’anni e mi ha cambiato la vita. Nel bene e nel male. (L’Azzeccagarbugli)

Lascia un commento