Il Senato del prog: CALIGULA’S HORSE – Charcoal Grace

“Già un altro disco dei Caligula’s Horse?”, ho pensato quando, pochi giorni fa, ho visto che questo Charcoal Grace era stato appena pubblicato dalla Inside Out. Poi mi sono reso conto che il precedente Rise Radiant ha già quattro anni, non proprio pochino. Avevo riposto molte aspettative in quell’album e non dico che fossero state completamente disattese ma in gran parte sì. Tale è il rischio che si corre quando si viene da un disco come In Contact, del 2017, per chi scrive un capolavoro assoluto, non solo dal punto di vista musicale ma anche da quello della produzione. C’era una bella dose di sapienza compositiva, usata per riempire un minutaggio notevole (poco più di un’ora) con formule mai noiose o forzosamente cervellotiche. E di certo l’abilità esecutiva ai Caligula’s Horse non manca. Anzi. Se, per di più, chiudi il suddetto disco con un brano come Graves, cioè con una perla progressive metal/rock, un miracoloso saliscendi musicale che da solo vale l’acquisto dell’intero lavoro, ben si capisce che è colpa tua se poi noi ascoltatori ci facciamo illusioni.

Ripeto, Rise Radiant non era totalmente da buttare. Ma aveva due grandi problemi. Il primo, su cui si può oggettivamente soprassedere, è quello di non essere In Contact. Il secondo, purtroppo, è che era prolisso, ripetitivo, piatto. Insomma, noioso. E non si può nemmeno dire che fosse il classico disco “di mestiere”. Pezzi memorabili: zero. Paradossale è che, almeno secondo quanto dichiarato dalla band, proprio Rise Radiant è stato il loro lavoro che ha ottenuto più successo commerciale.

Vien da sé che ho quindi accolto con un mix di sentimenti contrastanti questo nuovissimo e scintillante Charcoal Grace. Cosa aspettarmi? Chiariamoci: i Caligula’s Horse sono in giro da un po’. Quando in dieci anni di attività pubblichi sei album in studio, con alti e bassi ma senza mai prendere sonore cantonate, significa che ci metti del tuo e ti sforzi di mantenere sempre alta l’asticella. Non solo. I Caligula’s sono stati anche molto attenti nell’evitare di farsi influenzare eccessivamente da mode musicali passeggere, che esistono anche nel metal, o di cadere in tendenze commerciali che snaturano troppo il suono della band. In questo senso, la carriera degli australiani rappresenta una testimonianza di costanza e dedizione, e soprattutto fedeltà alla propria personale proposta musicale.

Con Haken e Leprous, credo che i Caligula’s Horse rappresentino bene il vertice del progressive metal odierno, forti anche di musicisti dotati di tecnica e perizia veramente invidiabili. In Charcoal Grace, gli australiani sono ritornati decisamente in forma. E per fortuna. Dopo sette anni, la band di Brisbane perde uno dei suoi membri ma riesce ciononostante a (ri)trovare una quadra che in parte si era persa con Rise Radiant e a produrre un disco solido, per niente piatto, con pezzi che anzi riescono ad alternare le distinte sfumature musicali con fantasia e bilanciare bene i distinti momenti del disco. Il taglio netto con il precedente Rise Radiant, pubblicato in una delle fasi più acute della pandemia, scaturisce infatti da ragioni artistiche, ma anche profondamente esistenziali. Sono gli stessi Caligula’s Horse infatti che descrivono il periodo di Rise Radiant come una tappa di sogni infranti e della seguente necessità di lasciar andare il passato, e pensare a qualcosa di nuovo per il futuro.

Charcoal Grace mi piace perché non è un ritorno a quanto fatto su In Contact, ma non è nemmeno ancorato alle formule di Rise Radiant. È una accorta miscela tra i due. Del primo riesce a riprendere la composizione bilanciata, la struttura di canzoni a cui viene dato il tempo di svilupparsi pienamente, l’intimità dell’esecuzione e quella sensazione di appagamento che i musicisti comunicano nel suonare i brani. Del secondo ripropone l’accessibilità all’ascoltatore, e semplifica la proposta musicale senza banalizzarla o farla scadere nel solipsismo o nella commercializzazione.

Tutto, in questo nuovo disco, suona come mi aspetto debba suonare una band nella sua forma migliore. Le frasi di chitarra ritmica, suonate su strumenti ribassati, si dipanano in poliritmie ispirate evidentemente al djent, ma vengono però controbilanciate dalle tastiere e dalla chitarra solista, che puntano in tutt’altra direzione musicale. Il batterista è semplicemente perfetto, sebbene la complessità delle ritmiche mi sembri leggermente più semplice rispetto a quelle, mostruose, e mostruosamente ben suonate, di In Contact.  Il cantante si ripresenta in forma smagliante. E non mi riferisco solamente a una ritrovata intensità e teatralità dell’interpretazione, ma anche alla volontà di sperimentare con tecniche simili a quelle usate da Maynard James Keenan (in Golem, o Prey) o di distorcere la voce con filtri di vario tipo.

Comparando questo disco con quello degli Haken uscito da pochi mesi, mi sento di dire che a differenza di quest’ultimo i Caligula’s Horse riescono a riassumere molto meglio le variegatissime influenze di cui vive la loro musica. La miscela di stili che può sfoggiare Charcoal Grace funziona a dovere, strizzando l’occhio anche all’art rock degli ultimi lavori di Steven Wilson. È un disco che non ci si stanca di ascoltare, grazie anche ai suoni decisamente “caldi”, molto distanti da quelli usualmente impiegati nei generi technical e in certo pessimo progressive da circo. Veramente notevole è la naturalezza con avviene il “riposizionamento” di voce e strumenti all’interno dello stage sonoro delle canzoni. Una scelta, questa, evidentemente voluta, e realizzata in fase di missaggio e produzione, che riesce ad amplificare ulteriormente le dinamiche dei pezzi e che si sposa a meraviglia con il tipo di musica suonata, donandole un effetto estremamente cinematico.

Piccola nota in chiusura. In un aspetto Charcoal Grace ricorda molto da vicino In Contact. Mute, l’ultimo pezzo, è, come fu Graves, il brano più bello del disco: stessa intensità, stessi riffoni, stessi stacchi – questi sì tecnici! – e una interpretazione da Oscar del metal. L’annata progressive si apre decisamente bene. (Bartolo da Sassoferrato)

3 commenti

  • Siamo decisamente nel mio genere. Anche se un po’ più contaminato djent. Certo che roba tipo i Tesserati oggi fa scuola e sensazione, invece questi qua fanno un mestiere più sano. Vorrei vederli live…

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  • Condivido in pieno la prima parte dell’articolo. Sulla seconda, quella relativa al nuovo album, non posso invece esprimermi perchè non l’ho acquistato e/o ascoltato proprio perchè con Rise Radiant mi hanno deluso così tanto che pensavo di mollarli.
    In Contact è un album immenso, difficile da emulare senza scadere nell’autocitazione. Questo articolo/recensione mi ha fatto venire voglia di procurarmi Charcoal Grace.
    Provvederò

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