Far West e black metal: WAYFARER – American Gothic

Credo che i Wayfarer possano ormai essere considerati una band solida, con alle spalle una carriera prolifica, dato che in poco più di dieci anni sono riusciti a pubblicare cinque album in studio, e senza fronzoli, dato che l’unico EP mai prodotto dal quartetto di Denver è uscito poco prima del disco che mi accingo a recensire.

La proposta dei Wayfarer, basata per lo più su sonorità tipicamente black metal, può considerarsi consistente anche perché sin dal secondo disco, Old Souls del 2016, è stata caratterizzata da una evidentissima evoluzione, tanto nel suono quanto nella composizione dei brani. Se infatti i primi due lavori sono ancora condizionati dalle sonorità tipicamente cascadiche, e per quanto godibili non rappresentano certo una fresca novità, a partire dal terzo lavoro pubblicato nel 2018, World’s Blood, le cose cominciano a farsi enormemente più interessanti. Da lì parte una parabola, a mio avviso in ascesa, che si esprimerà poi nell’ottimo A Romance with Violence del 2020 e in questo American Gothic, appena pubblicato.

Sebbene in questi tre dischi il mélange musicale sia ancora largamente improntato al black metal, la componente di novità, rifinita sempre di più nel corso dei tre dischi, è rappresentata dall’utilizzo, in fase compositiva e di scelta dei suoni, di sonorità da film western. Non voglio scoraggiare il possibile ascoltatore: è un mix riuscito, per niente pacchiano, dove il black, il death e lo sludge si colorano dell’immaginario tipico della frontiera americana ottocentesca. Le prime sperimentazioni in questo senso furono avanzate già in World’s Blood. Ma American Gothic, in realtà, prosegue un discorso che era stato intavolato soprattutto in A Romance with Violence, rifinendolo e perfezionando ulteriormente un suono peculiare che ormai, credo, si stia imponendo come cifra stilistica principale della band.

Com’è noto, American Gothic è il titolo di un iconico dipinto di Grant Wood del 1930 che rappresenta due contadini americani ritratti a mezzobusto davanti a un singolare edificio. Il dipinto deve il suo nome in parte a questo edificio, perché è riprodotto seguendo i canoni di quel particolare e caratteristico stile architettonico ottocentesco che si popolarizza in America del Nord a partire dalla fine del XIX secolo, chiamato appunto carpenter gothic o rural gothic. Questo stile, sviluppatosi praticamente in quasi tutto il territorio degli Stati Uniti, replicava in parte gli elementi tradizionali dello stile gotico europeo ma lo faceva con estrema libertà di interpretazione, provando ad adattarlo alle nuove necessità e ai nuovi materiali da costruzione dell’America rurale.

In parte, questa operazione di “traduzione” e adattamento la ritroviamo anche nella musica proposta nell’omonimo disco dei Wayfarer. Ora, infatti, la band si discosta notevolmente da altre che semplicemente riproducono le atmosfere cascadian black metal, e che sono proliferate immensamente negli ultimi anni. I Wayfarer offrono un disco finalmente non derivativo, ma profondamente ispirato ed originale. Se A Romance with Violence rappresenta quindi il vero principio di questa svolta musicale, American Gothic rifinisce il tutto, non solamente perfezionando il suono ma anche limando le asperità in fase di scrittura dei brani. Come il precedente lavoro, il disco propone all’ascoltatore una prima parte più “tradizionale” e una seconda parte dove le sperimentazioni sono invece più presenti. È veramente difficile farvi capire, solamente scrivendone, la goduria che si prova nel sentire le ronzanti cavalcate chitarristiche di certi brani, come The Thousand Tombs of Western Promise, stemperarsi in arpeggi riverberati suonati al dobro, atmosfere che quasi vi fanno sentire il sapore di tabacco e whisky in bocca. Ripeto, il tutto senza che – neanche una volta – la musica scada nella banalità di certo folk black dal sapore plastificato di Oktoberfest provinciale. Anche i momenti che più si discostano dal metal estremo, come la ballad A High Plains Eulogy, sono decisamente in linea con lo spirito del disco e contribuiscono quindi a rendere l’ascolto più compatto e coinvolgente. Rispetto al precedente disco, inoltre, i Wayfarer scelgono di snellire notevolmente la durata di ogni brano. È un’idea che a tutti gli effetti paga e appaga, e non si ha mai l’impressione – che alle volte ho avuto ascoltando A Romance with Violence – che si allunghi un brodo che non ha bisogno di essere allungato. Di fatto, l’unico brano che supera i dieci minuti è quello in apertura, mentre gli altri sono di minutaggio notevolmente inferiore.

La produzione e il missaggio contribuiscono ad amplificare la sensazione data dalla musica, e cioè che ci stiamo muovendo proprio nel territorio della frontiera americana, una regione fatta di polvere e di semianarchia. Uno dei dischi più ispirati del 2023. (Bartolo da Sassoferrato)

8 commenti

  • Avatar di Fanta

    Non so, a me sembra una band estremamente sopravvalutata. Tipo gli Uada (in termini di sopravvalutazione). Le atmosfere western, a mio modo di vedere, sono una suggestione che proviene molto più dall’immagine che dal contenuto musicale. Ma anche volendo “stirare” questa presunta commistione, dandola per buona, parliamo di rimandi storici o di Sergio Leone? No perché qua i Fields of the Nephilim avevano già abbondantemente dato.
    Per il resto, la ballad che citi sembra un outtake da The Assasination of Julius Caesar degli Ulver e la prima parte del disco è poco più che robetta banale.
    Opinione mia ovviamente, per quel che vale.

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    • Avatar di Bartolo da Sassoferrato

      Capisco la tua posizione, anche se forse “estremamente sopravvalutata” è un po’ una iperbole per una band che avrà cento fan in tutto il mondo. A me piace la proposta di mischiare il cantautorato americano (e il suo sound) con il black metal di stampo (ex)cascadico. A conti fatti, non ci sono band che suonano così. Magari, dici tu, è un bene. Forse.

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  • Avatar di Fanta

    “Estremamente sopravvalutati” in relazione a una band emergente. Hanno buoni ascolti, in realtà. E stima diffusa.
    Sempre a mio modo di vedere i Panopticon sono il loro punto di riferimento più importante. Solo che Lunn sa iniettare dosi di cultura musicale folk e bluegrass meno artefatte nella sua proposta. Vedo i Wayfarer come una roba hollywoodiana, in confronto. E con molta, molta meno sostanza.
    Posto che …And again into the Light a me non piace affatto (disco sbagliato su tutta la linea ma ci può stare) e l’ultimo devo ancora sentirlo. Sperando che vada a parare altrove.

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  • Avatar di Lo Xul

    Album sublime e gruppo di caratura elevatissima, discordo con la recensione solo sul “brodo allungato” in A romance with Violence, che era parte della struttura che, secondo me, dava la sensazione di “vuoto spazio temporale” tipica dell’immaginario western (per certi versi mi ricorda il primo libro de “La torre nera”.
    Ma concordo che aver snellito i brani sia stata una mossa vincente.
    Tra i 10 top del 2023.

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    • Avatar di Bartolo da Sassoferrato

      non mi sono spiegato bene io: non è la durata dell’album che mi ha causato la sensazione di brodo allungato, ma il minutaggio delle singole canzoni. Qui, secondo me, hanno apportato -come scrivo- una sostanziale riduzione del minutaggio a favore di una fruizione molto migliore.

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  • Avatar di Federico

    Concordo con ogni singola parola.
    Non avrei saputo descrivere meglio il tutto.

    Gran bel disco.

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