Avere vent’anni: YOB – Catharsis
(n.d.a. recensione basata sulla ristampa Relapse di Catharsis in vinile, del 2013)
Non serve certo introdurre gli YOB, dato che giustamente vengono, oramai da qualche anno, di diritto considerati come uno dei gruppi più rappresentativi dello stoner/doom metal più intransigente. Mike Scheidt e la sua creatura vantano infatti una più che ventennale carriera, senza alcun fronzolo e, al contrario, costellata da otto solidissimi album in studio -che testimoniano un percorso in crescendo, con dischi di cristallina bellezza e che, con The Great Cessation, Atma e Clearing the Path to Ascend (secondo me vera e propria Trinità del panorama) raggiungerà vette compositive ed esecutive raramente raggiungibili – più una manciata di live album per poter saggiare la resa della band anche sul palco.
All’epoca della prima uscita di Catharsis, la scena più autenticamente stoner/doom non ci regalava dischi particolarmente eccezionali, con il solo Dopesmoker che si candida di diritto a classica eccezione che conferma la regola, e con qualche altro album sì interessante ma francamente tralasciabile (mi viene in mente Misery’s Omen, disco d’esordio della band omonima, poi sparita dopo aver dato alle stampe il ben superiore Hope Dies). C’è da rilevare che, pur condividendo la passione per riff lenti e asfissianti, le situazioni claustrofobiche e una sostanziale e voluta ripetitività nella struttura delle canzoni, la proposta degli YOB e quella degli Sleep si distanziano molto per atmosfere evocate. Una ventata d’aria fresca, quindi, per un genere che al principio dei Duemila non godeva certo di buonissima salute, appunto.
Nel 2003, anno della prima stampa di Catharsis, gli YOB erano ancora una band che senza colpo ferire possiamo definire decisamente underground, con all’attivo un’ottima demo e il disco d’esordio, Elaborations of Carbon, pubblicato solamente l’anno precedente. Il primo lavoro, recentissimamente ristampato in versione remixata e con una veste grafica completamente rivoluzionata e, a mio avviso, molto più appropriata, è un vero e proprio fulmine a ciel sereno, ed è capace di mescolare magistralmente sonorità tipicamente doom, ricami di chitarra allucinogeni e timbriche vocali che, quando non sono cantate brillantemente in growl, ricordano il rock anni Settanta.
Il questo secondo disco il progetto prosegue il discorso sulla falsariga del lavoro precedente, amplificando e raffinando ulteriormente le caratteristiche appena descritte, in modo da stabilire uno stile riconoscibile. A conti fatti, Catharsis raggiunge lo scopo: le qualità già riscontrabili qui saranno poi trasformate in marchi di fabbrica nella carriera del terzetto dell’Oregon. I Nostri tornano infatti a riproporre un mix egregio di pezzi lentissimi, con un disco audace, ambizioso, di tre “sole” tracce. Una, più corta, di sette minuti e le restanti due, monolitiche, composizioni a coprire quasi un’ora di musica. È però evidente un salto di qualità notevole rispetto al primo lavoro, dato che in questo secondo disco Scheidt dimostra di aver maturato una consapevolezza più solida del potere evocativo della musica doom, che si fonda soprattutto in un costante crescendo delle sezioni strumentali, che si devono dipanare senza fretta, creando, di fatto, il tempo musicale: nella prima traccia dobbiamo aspettare più di due minuti per sentire il primo accenno della chitarra. Le canzoni sono costruite con perizia e senza fretta dunque, e si ha quasi la sensazione che il proposito sia quello di instaurare un patto con l’ascoltatore: un accordo non scritto di totale attenzione, per meglio apprezzare lo svolgimento della musica gradualmente tessuta gli strumenti. A conti fatti, è quasi la metafora dell’intera carriera del gruppo.
Le composizioni, come in precedenza, sono fondamentalmente “chitarrocentriche”. Le parti suonate non si sviluppano in modo eccessivamente tecnico e, anzi, si affidano soprattutto a pattern semplici ma effettivi, con strumenti ribassati e una batteria essenziale. Il muro sonoro delle parti più rocciose è controbilanciato dagli arpeggi e dai solo di chitarra, che si richiamano in modo particolare al rock psichedelico o al blues acido. Ritroviamo anche l’ormai classico cantato in “falsetto” di Scheidt, con virgolettato obbligatorio perché in realtà la voce è camuffata da una miriade di effetti che la rendono particolarmente aliena alle timbriche umane, il che gli permette di spiccare al di sopra della densa materia sonora creata dagli strumenti. Dona un senso di disagio alle composizioni, perfetto per le tematiche affrontate dai brani e per la sensazione che questi sembra vogliano a tutti gli effetti provocare. L’assenza di tecnicismi, però, riguarda unicamente e strettamente l’aspetto esecutivo della musica di Catharsis, perché nel momento in cui dedichiamo la nostra attenzione di ascoltatori all’organizzazione delle varie sezioni musicali, scopriamo che alla semplicità dei blocchi musicali che compongono le canzoni corrisponde in realtà una complessità costruttiva generale, e il build-up, lento ma costante, guida l’ascoltatore attraverso articolate transizioni sonore, dalle parti più pacate a quelle dove l’intreccio degli strumenti è più cacofonicamente dissonante. Il tutto avviene sempre in modo ragionato, a base di riff compattissimi e dinamiche cangianti.
L’ascolto è appagante anche se difficoltoso, caratteristica, quest’ultima, dovuta forse alla mastodontica durata dei brani, che dall’inizio alla fine incedono a ritmo pressoché costante ma alternando sezioni più posate ad altre decisamente brutali. Il risultato finale è quello di una psichedelia pesante, da Black Sabbath imbruttiti, o da ISIS decisamente più grezzi, meno rifiniti, per niente influenzati dal punk e, soprattutto, scevri da inserti elettronici.
Per quanto riguarda il remaster, due parole meritano di essere spese a proposito di un paio di aspetti ulteriori. Anzitutto la veste grafica dell’album, completamente rifatta e decisamente più in linea con il titolo del disco. Sarà un mio limite, anzi sicuramente lo è, ma a mio parere il concetto di catarsi ricorda di più – anche se non necessariamente o strettamente – la statua di un Buddha in un tempietto dorato (copertina remaster), piuttosto che le canne fumaiole di alcuni complessi industriali, la luna, un’eclissi solare e quello che sembra essere un deserto di notte, il tutto accroccato con degli effetti speciali degni di PaintBrush (copertina originale). In secondo luogo, la produzione più incisiva e raffinata valorizza ulteriormente la musica di Catharsis, tappa ulteriore di un percorso musicale che, ad oggi, non ha prodotto, al netto di dischi più o meno riusciti, nessun vero passo falso. (Bartolo da Sassoferrato)



