KAYO DOT – Choirs of the Eye: il grande tormentone del 2003

Choirs of the Eye, cioè il disco d’esordio dei Kayo Dot, usciva esattamente il 21 ottobre 2003. Va da sé che noialtri non ci facciamo mai mancare l’occasione ghiotta per rimpinguare ulteriormente la rubrica amarcord della nostra webzine caprina preferita ed è, quindi, subito Avere vent’anni.

Non è necessario frequentare i solari lidi della musica mainstream, come fa il sottoscritto allo scopo di non rinunciare a nessun grande successo commerciale, per sapere di che razza di disco stiamo parlando. L’album in questione fu infatti pubblicizzato su ogni piattaforma digitale disponibile all’epoca, e anche su una larghissima selezione di riviste più o meno distribuite che, manco a dirlo, ne tessevano le lodi ancor prima dell’uscita ufficiale. Ma a beneficio di tutti coloro che non hanno potuto, all’epoca, vivere quei giorni di hype estremo, in un mondo che ancora non aveva nemmeno ancora idea di che cosa l’hype fosse, cominciamo con il dire che i Kayo Dot sono la reincarnazione dei Maudlin of the Well, precedente gruppo di Toby Driver – compositore di motivetti orecchiabili e cheesy, conosciuto soprattutto per aver composto capolavori moderni irrinunciabili come Bring Me to Life degli Evanescence – che, sulla scia del successo clamoroso, e meritato, di St. Anger dei Metallica, prova a recuperare quella formula musicale vincente, e la bontà dei suoni, per utilizzare il tutto in modo più orecchiabile e facilitarne la fruizione a livello di massa. Il risultato fu ovviamente un centro completo.

Pressato in modo asfissiante dalle etichette discografiche che gli recriminavano una eccessiva complessità nella stesura dei brani, il Toby Driver, di buon grado, come non mancò mai di sottolineare nelle successive interviste promozionali, accetta di radicalizzare ancor di più lo stile musicale dei Maudlin of the Well e dedicarsi così a qualcosa di ancora più accattivante, immediato e diretto, così da soddisfare, in tutto e per tutto, anche i gusti del fan più esigente e raffinato. Del resto superare i migliori Metallica non è mai stato semplice per nessuno. Da qui la scelta di una major di lusso per la pubblicazione del disco, la Tzadik di John Zorn, leader del settore con all’attivo successi internazionali come At the Mountains of Madness degli Electric Masada, più volte disco di platino.

Convinti quindi, senza troppa fatica a dir il vero, alcuni ex componenti dei Maudlin, Driver si mette a lavorare alla composizione di questo disco d’esordio della sua nuova creatura confermandosi ancora una volta come vero motore artistico dell’ensemble che, a conti fatti, potrebbe essere considerata come i Maneskin dei primi anni Duemila. C’è da rilevare, innanzitutto, che il proposito iniziale dei produttori è stato qui pienamente raggiunto. Lasciate completamente le velleità progressive, che ancora, purtroppo, si riscontravano nei lavori della precedente band, a detrimento dell’esperienza dell’ascoltatore, la musica qui è semplice e avvincente. Totalmente assenti anche gli ammiccamenti al death metal, che in qualche modo rovinavano l’ascolto dei dischi dei Maudlin, e si privilegiano quindi le voci pulite, le melodie mid tempo e le più romantiche ballate tradizionali a tempi pari.

Fu questo mix, già nel 2003, ad attrarmi in modo pressoché irresistibile. Il 21 ottobre non mi ricordo esattamente cosa stessi facendo. Probabilmente, così a naso, fingevo di fare i compiti di meccanica e in realtà navigavo su internet (con Alice, la prima ADSL della Telecom) in cerca di un grande classico cinematografico dell’epoca, Briana Loves Jenna, dove se non ricordo male c’era una scena che coinvolgeva l’uso di una pistola. Ma non per sparare.

Però ricordo anche questo disco e, ricordo, lo recuperai subito proprio per quanto appena detto. Perché, certo, investire il proprio tempo nella fruizione di pornografia è sicuramente appagante, ma soprattutto è appagante poter gioire della semplicità di un disco come questo. Un disco che finisce come inizia. Senza cambi di direzione. Con una proposta sonora consistente e continua e, soprattutto, con dei testi leggeri e spensierati. Non c’era francamente più spazio per le velleità di sperimentazione. I Kayo Dot, in anticipo sui tempi, avevano capito già all’esordio che il pubblico cerca serenità, pensieri positivi, melodie orecchiabili e autotune in abbondanza, voci squillanti e soprattutto testi ricercati (pregevole il verso di The Antique, che chiude il disco chiosando in italiano: “Io c’ho vent’anni / E non mi frega un cazzo, c’ho zero da dimostrarvi”).

Certo, di primo acchito una band di ben undici elementi potrebbe far storcere il naso ai puristi: a ragione, undici persone sono effettivamente troppe visto che, alla fin fine, le stesse cose le puoi fare con meno della metà dei musicisti. Ma per poter realizzare qualcosa di così ambizioso, e proporre finalmente del metal che possa piacere a tutti e che possa scalare le vette di tutti i top of the pops mondiali, bisogna pur fare qualche marchetta e scendere a compromessi. Parafrasando il maestro contemporaneo Glauco Benetti, la prima cosa che serve per fare un gran successo commerciale sono “le tette: popi, popi”, ed ecco così spiegata la presenza della violinista. Per il resto, il disco si fregia di undici canzoni della durata media di tre-quattro minuti, per un’oretta di musica spensierata che si dipana tra cori sgargianti e ritornelli che ti si imprimono nella memoria sin dal primo ascolto. Canzoni che si sviluppano alla vecchia maniera, attorno ai riff di chitarra e al basso in quattro quarti, con tempi pari ben scanditi e riconoscibili. A differenza dei precedenti Maudlin of the Well, la nuova band di Driver opta per strutture ancora più semplici, il cui songwriting si affida soprattutto a progressivi accordi in tonalità maggiore, e che soprattutto utilizza la sempre vincente formula del ritornello ad libitum sfumando. Quasi totalmente assenti, per fortuna, i brani strumentali, a favore di una predominanza incontrastata della voce, vera protagonista del platter.

Un classico istantaneo, un disco che è riuscito ad affermarsi anche nello stantio panorama musicale italiano tanto che i nostri migliori ed informati critici musicali gli hanno pagato il meritato tributo, da Morgan a Elio, da Simona Ventura a Ambra Angiolini non c’è stato nessuno che non ne abbia parlato. Va da sé che siamo in presenza non solamente di un album stilisticamente ben riuscito, ma anche di un successo commerciale interplanetario, capace di rimanere in classifica per decine di settimane, che ha fruttato ai Kayo Dot una serie di concerti internazionali da headliners, supportati da band come Metallica (si, proprio quelli fighi che avevano appena pubblicato St. Anger!) e Limp Bizkit (scelta non apprezzata da tutti i fan per l’eccessiva laboriosità della musica proposta da questi ultimi). Senza parlare delle tonnellate di merch venduto durante i live, le comparsate al David Letterman Show, le collaborazioni con Britney Spears e Madonna e l’onore per i Kayo Dot di vedere, da spettatori, i propri successi suonati da Avril Lavigne nel più prestigioso palcoscenico della musica internazionale, la créme degli MTV music awards.

Ma, visto che la perfezione non esiste, e se esiste non è raggiungibile, tra i lati negativi di questo lavoro devo, con tristezza, riscontrare l’essere invecchiato molto male. Riascoltato oggi, il disco non ha più la freschezza che aveva al momento della sua prima pubblicazione e, ai giorni nostri, forse funzionerebbe meglio come sottobicchiere o, chissà, appeso allo specchietto retrovisore per impallare gli autovelox degli sbirri.

Ma questi sono dettagli di poca importanza. Sono passati vent’anni. All’epoca ci fece ballare per settimane sulle spiagge di mezzo mondo, di giorno e di notte, e limonare duro con la tipa – o il tipo – che ci piaceva. Che, alla fine, sono le cose che contano. (Bartolo da Sassoferrato)

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