Non è freddo, è la Morte che sta arrivando: MARK LANEGAN BAND – Here Comes that Weird Chill

Autunno 2003. Sono iscritto da pochissimo all’università, biennio di Ingegneria, dentro un edificio grigio che voleva già dire tutto. Le ragazze erano nella palazzina a fianco, quella bella, quella di Economia. Quando facevi compagnia a un compagno che fumava sulle strette scale antincendio le vedevi salire le ampie scalinate che portavano alle loro aule. Grandi falcate. C’erano però anche delle gioie, in quell’inizio nuovo. Tipo avere le strade di Roma tutti i giorni sotto i piedi, tornando in provincia solo quando si faceva notte. Oppure i dischi andarseli a scegliere al negozio della Capitale e comprarli subito, non ordinandoli al negozio di provincia, vedendoli arrivare, se andava bene, dopo un mese o due. I primi due che ho comprato da Disfunzioni Musicali a San Lorenzo, lo ricordo benissimo, sono stati Arbeit Macht Frei degli Area e Here Comes that Weird Chill della Mark Lanegan Band. Era la prima volta che veniva fuori come nome di una band, quello di Marco il Tenebroso, ma era scontato fosse il suo nuovo disco solista. In realtà sulla carta era un Ep, ma composto di nove brani per trenta minuti di durata. C’era pure un sottotitolo, sul fondo della copertina: Metamphetamine Blues, Extra & Oddities. Quindi manco un Ep, ma un singolo ciccione. Eppure… Addirittura, in realtà, si tratta di un surplus di brani registrati per l’album successivo, Bubblegum, che avrebbe visto la luce l’anno dopo. Non ho memoria di altri dischi di outtakes che hanno preceduto anziché seguire l’uscita principale. Questo qui doveva avere qualcosa di speciale. E lo aveva.

 

Forse l’idea era anticipare al pubblico i cambiamenti cui sarebbe andato incontro. Innanzitutto, appunto, il nome. Una band, ma non una band normale. Direi quasi una band diffusa (come si usa dire ora per certi tipi di hotel). Un po’ tipo desert sessions asincrone (come si usa dire ora per certe modalità lavorative). Il buon Mark ha sempre avuto collaboratori di lusso, ma in quel momento della sua storia nome e popolarità di quelli che suonavano sui suoi dischi erano per lo meno paragonabili al suo, ingombranti. In questo Ep suonano, per dire, Greg Dulli, Joshua Homme, Nick Oliveri e tanta gente del giro del deserto (Chris Goss, Dave Catching, Alain Johannes). Band diffusa anche perché in quel momento quel giro di musicisti te lo potevi ritrovare su dischi diversi, sotto moniker diversi, e tutto questo assomigliava a una scena. Insomma, alla corte di Mark c’era un gruppo di musicisti impressionante, e ancora non sapevamo praticamente nulla del successivo Bubblegum.

Here Comes that Weird Chill parte da Metamphetamine Blues, l’unica traccia in comune con l’album successivo. E considerando che Field Songs era un album ancora tradizionale, lo shock era assicurato. Martellate industrial continue, a un volume di missaggio esagerato, ed elettricità malata, anzi, drogata. Per chi ancora si aspettava dischi di cantautorato tutto sommato classico, come me, uno shock. Anche, poco più avanti, la cover di Clear Spot di Captain Beefheart & His Magic Band voleva dire qualcosa. Più sporcizia, più caos. Più bulbi. Tipo Skeletal History, di fatto una traccia in cui i QOTSA (che erano ancora in palla) riprendevano, appunto, le visioni apocalittiche di Don Van Vliet. Tipo certi fagioli alieni con gli occhi grandi. Il richiamo è evidente. Ancora morte e deserto nell’ultima Sleep With Me, splendida anche in versione dub. Dulli si sente principalmente in Message to Mine, forse la meno significativa della scaletta. I picchi sono altri, sono due e sono tra i vertici assoluti nella carriera di Marco il Tenebroso. Uno è Lexington Slow Down, una ballata per pianoforte che è una delle cose più American Gothic che possiate immaginare ed è pure quasi un gospel. L’altra è Wish you Well, semplicemente una delle mie canzoni preferite. In assoluto. Una che inserirei in una cassettina che dovesse raccogliere allo stesso tempo i miei brani preferiti e i ricordi più significativi dei giorni che ho vissuto fino ad oggi.

Ora, questa non ve la racconto. È una storia buffa e sbagliata, di quelle che non racconteresti a degli sconosciuti. Che non butteresti così in pasto ad un pubblico, anche foste voi, ventiquattro lettori affezionati. Comunque, finiva una vacanza, in tutti i sensi, e volli fare un CD per celebrarla e per ricordarla, non solo io. C’era tanto di quello che ascoltavo all’epoca, roba cupa e molta altra meno (Sam&Dave, Stooges, Curtis Mayfield, MC5, Napoli Centrale, Can, Joy Division, pure Capitano Cuoredibue, ovvio). Era perfetta, erano tutti brani fondamentalmente ritmici, lascivi. C’era sempre una ritmica pressante, imponente, che pompava sotto, incessante. Martellante. In crescendo. Per quanto fossero canzoni diversissime, ero riuscito a tenere questo filo conduttore, il ritmo ideale, dalle prime movenze all’esplosione finale, frenetica. Con tutto quello che accade in mezzo. Alla fine, dopo tanta agitazione e prima di un buffo epilogo (ve l’ho gia detto, una vacanza fondamentalmente buffa), ci piazzai Wish you Well della Mark Lanegan Band. La piccola morte perfetta. Ritmica stavolta ovattata, bassi esagerati, in eco, e la voce più profonda di sempre, piazzata mezzo metro sotto i testicoli. Per me, brano emozionante come pochi.

Long coarse and primitive
I wish love, lord
I wish love could live forever

I’m burning bright as hell
Here comes that weird chill
But I wish you well

Your eyes are stone, she said
Truly beautiful and dead
I wish you well
I want to ride on this carousel
But I never really stopped to wonder

Mi manca tanto, Marco il Tenebroso. Riusciva ad essere cupo anche in un brano dolce, romantico. Come questo. Sereno. Come la Morte. Ho sempre amato quella cupezza, abissale. È stato spesso, molto spesso, un problema per me, quella cupezza. Non però in quella vacanza, non quell’estate. E il ricordo dolce che me ne rimane è freddo come uno strano spiffero che gela le ossa.

Detto questo, l’Azzeccagarbugli insiste perché io ribadisca che quella di Lanegan è stata la migliore voce maschile di tutti i tempi, di tutto il globo terracqueo. Ma non pensavo ce ne fosse bisogno. Bartolo da Sassoferrato invece insiste perché affermi che Blues Funeral è un capolavoro. Questa è meno scontata. Magari ne parliamo quand’è il ventennale. (Lorenzo Centini)

4 commenti

Lascia un commento