Un Sabbath italiano vol.7: oltre l’eternità

Questa volta ci andiamo davvero vicini. Questa volta e la prossima. Perché il discorso che cominciamo ad affrontare oggi richiede come minimo due capitoli, due volumi. Anche perché come al solito ci capiterà di divagare un po’. E anche perché le due perle che vi propongo in questi due volumi sono strettamente legate tra loro per storia, componenti e suono. Suono che, stavolta sì, stavolta più di tutte, è forse il suono del doom italiano anni ’70. O meglio, avrebbe potuto esserlo. Ovviamente, però, bisogna andare con ordine. E prenderla da lontano. Che a noi piace così.

Il frastuono della breccia di Porta Pia, nel 1870, aveva interrotto i lavori del Concilio Vaticano I, e vescovi e cardinali, forse disturbati dal casino portato dagli invasori, non riuscivano più a trovare la concentrazione necessaria per continuare i lavori. Per questo ed altri motivi, i rapporti coi chiassosi ed invadenti vicini (che si facevano chiamare italiani) ha generato diversi rancori, incomprensioni e silenzi. Fino a quando il Vaticano stesso accondiscese a far la pace, quando si fece avanti un nuovo interlocutore unico che prometteva di contenere l’inquinamento acustico di quei tempi. Sappiamo bene chi. Ma il frastuono che sembrava essere passato una volta per tutte ritornò a rovinare il sonno della Città Eterna. Arrivarono adunate, poi bombardamenti, rastrellamenti, spari e uccisioni. Arrivarono ondate di divise che parlavano lingue straniere, scacciandosi tra di loro. Al Vaticano non restava che aspettare che il frastuono si calmasse. Dei tappi alle orecchie avrebbero aiutato, o forse lo hanno davvero fatto.

“I wanna be adored!”

Comunque anche quando i fuochi d’artificio finirono, i vicini italiani tornarono a fare un gran baccano. Le macerie divennero cantieri, i laboratori degli artigiani divennero officine, poi industrie. E soprattutto i sudditi cominciarono a fare di testa loro, mettendosi in testa di pensare, votare, cantare. Il canto divenne una cosa grossa. Aiutato dell’elettricità elargita indiscriminatamente al volgo, si diffuse da grammofoni, radioline e jukebox. Non solo canto, anche urla e stridori, suoni nuovi e molesti. Alcune delle divise che erano transitate per lì pochi anni prima avevano lasciato anche questa nefasta influenza, non solo caramelle e cingomme. Di più: da lontane terre oltremare giungevano rapidamente voci riguardo schiavi che avevano preso a suonare le loro chitarre non più solo nelle piantagioni cui appartenevano. Anzi, sembrava persino che non vi appartenessero più, alle piantagioni. Peggio ancora, giungevano voci allarmanti circa le discendenti di Eva, non più in grado di preservare la propria Virtù dinanzi a un ciuffo, un microfono e un pantalone attillato. Il peggio era quindi che il frastuono ormai veniva anche da molto più lontano, ben oltre il Gianicolo o Mentana. Stavolta non si poteva più invocare l’aiuto dell’imperatore dei francesi o degli austriaci per ristabilire la quiete, per lo meno nelle ore notturne. Quegli imperatori poi non c’erano più ed i loro popoli, sopravvissuti a tale lutto, non avrebbero fatto forse meglio degli indisciplinati italiani, vicini di casa. Sperare una seconda volta nel provvidenziale arrivo di un altro interlocutore unico disposto a disciplinare il volume delle radio non pareva più possibile. Erano variati i tempi. Bisognava cambiare strategia. Bisognava cominciare a scendere a patti col chiasso moderno. Magari persino sfruttandolo per i propri fini. E magari intercettando anche i gusti del pubblico giovane.

L’idea venne a Giovanni XXIII, che nel 1959 annunciò un nuovo Concilio, il Vaticano II, ma che, forse per problemi logistici, riuscì ad aprirne i cancelli solo l’11 ottobre 1962. Poi morì, il 3 giugno 1963, ma questo non scoraggiò il suo successore, Paolo VI, che proseguì ed infine chiuse i lavori l’8 dicembre 1965. Nel corso di questi lavori, vescovi, arcivescovi, monsignori e cardinali devono aver necessariamente fatto a meno dei tappi per le orecchie. Il Concilio così ha avanzato proposte per provare a risolvere qualcuno di quei nodi fastidiosi che si erano formati col tempo (tipo quello sui rapporti con i cugini giudei, vicini o lontani). Inoltre, tante discussioni di dottrina e innovazioni che non siam degni di trattare in questa sede.

Ma a dire il vero alcune delle novità ci interessano eccome, come vedremo tra poco. Per esempio, sulla cerimonia liturgica. In effetti, ai concerti e nelle sale da ballo non si era mai visto che il complesso suonasse spalle al pubblico. Ecco allora staccare l’altare dal muro al fondo della sala e portarlo al centro del palco, col prete che finalmente poteva arringare gli spettatori guardandoli negli occhi. E ancora via libera alle celebrazioni nelle lingue nazionali, a scapito del latino. D’altronde, si sa, a quei tempi le classifiche non premiavano mica i brani cantati in lingua straniera. Infine, anche se non si tratta di una vera delibera del Concilio, quanto piuttosto di una conseguenza del clima che cambiava, la Casa del Signore venne aperta anche alle chitarre, per non lasciarle tutte quante a Satana. Nacque la Messa beat.

Cominciarono subito gli ascolani Gli Amici, che non persero tempo e già nel ’65 stamparono un Ep per le Edizioni Paoline, Chinati ai tuoi piedi/Osanna nell’alto dei cieli/Ave Maria no morro. Sempre dello stesso anno l’esordio su 45 giri dei sardi Barrittas. Era l’anno de Il Buono, il Brutto e il Cattivo e questa informazione forse ci aiuta a contestualizzare un poco, visto che l’autore dei primi brani dei Barritas era Marcello Giombini, futuro precursore dell’elettronica nostrana, ma soprattutto già affermato compositore di colonne sonore, di cui molte proprio di area spaghetti western. Per dire, su per giù tutta la serie di Sabata porta il suo nome come compositore. Ah, successivamente si diede anche all’horror, con Antropophagus, che qualcuno dei lettori conoscerà bene. Comunque, nel ’65 Giombini aveva composto la prima Messa beat e nel ’66 cominciò a presentarla negli oratori arruolando come esecutori proprio i Barritas, oltre a Bumpers e Angel and the Brain. Noi comunque non approfondiamo troppo ora il filone, non divaghiamo. Ci limitiamo a constatare con ironia come, mentre il beat internazionale faceva fiorire le istanze dell’amore libero, in Italia almeno una parte di esso si allineava (per lo meno nei testi) ai dettami di Sua Castità. Presunta.

Ma insomma, dove vogliamo andare a parare? Beh, in questa rubrica noi rovistiamo nei cassetti del prog, ed il prog dal predecessore beat ha ereditato tanto, musicisti ma anche contesto. Così, scavalcato il ’69, se ne trovano parecchi di complessi prog che, pur non interessati ad esibirsi in parrocchia, intendevano la propria arte come un mezzo per tessere le lodi del Creatore del Cielo e, perché no, dell’Elettricità. Il Rovescio della Medaglia, ad esempio, lo abbiamo già incontrato. La loro Bibbia potrebbe anche rientrare in questo discorso, ma oltre sulla trasposizione dei passaggi più salienti del noto best seller internazionale non ci leggo una grande propensione verso il sermone. Altre esperienze prog maggiormente votate al proselitismo se ne trovano: Delirium, Metamorfosi, Latte e Miele. Tra queste, sembrerebbe il caso di trattare dei genovesi J.E.T., i più hard di tutto il lotto.

Immaginate gli altri.

Sui J.E.T. e sul loro album Fede Speranza Carità sentirete dire alcune cose. Tipo che sarebbero i Deep Purple italiani. Io ci andrei piano. I genovesi paiono molto convinti nel decantare le gesta del noto Nazareno e nello spronare il prossimo ad avere fede. Convintissimi, loro. Io un po’ meno nel ritenerlo un disco hard, il loro. Sì, ha delle chitarre distorte e dei riff, ma chiaro che Blackmore sta proprio da un’altra parte. Gli hammond? Non scomoderei nemmeno il Signore (Lord). Fede Speranza Carità è un disco di rock progressivo sinfonico che deve parecchio ai New Trolls. Per lo meno sul piano strumentale. E vocale. Voi ve lo immaginereste Gillan erompere con un “Dio è Amoreeee / Yeheeeee!”, o un “Gesù ti ama / UahAAAAAAA!!!”? Manco io. Anche se poi, a ben pensarci, era solo il ’70 quando questi aveva rifiutato di proseguire nell’interpretazione proprio di quel Nazareno nel musical Jesus Christ Superstar. Dopo aver dato proprio lui la voce al Salvatore. Chissà cosa ne pensava all’epoca del Concilio Vaticano II. Comunque, Fede Speranza Carità è del ’72 e i J.E.T. non devono aver raccolto i frutti che speravano. Così nel ’75, dopo persino un giro infruttuoso a Sanremo, smettono le loro velleità hard, reclutano una spettacolare Antonella Ruggero (invero, già corista sull’album) e Giancarlo Golzi alla batteria (dallo sfortunato Museo Rosenbach, su cui torniamo presto) e diventano i Matia Bazar. E noi smettiamo di seguirli, tranquilli. Non divaghiamo ulteriormente. Però averli nominati mi offre l’occasione di sottoporvi la copertina del loro primo disco, solo per via del fatto che nella foto del gruppo, su quella copertina, si riconosce una giovanissima Ruggero. Incredibilmente ammaliante.

Messa beat, pseudo hard confessionale. Sembra proprio che stiamo facendo un buco nell’acqua(santiera), stavolta. Eppure i migliori romanzi polizieschi insegnano che, quando la pista principale si rivela un castello di carte, il bravo detective trova una pista minore, laterale. Ed arriva così a chiudere il caso. Seguiamo quindi, attenti a non essere visti, i movimenti di Rinaldo Prandoni, paroliere, compositore e musicista di Busto Arsizio. Studente coi Mandolinisti Bustesi, già chitarrista per l’ex cantante dell’orchestra di Renato Carosone. Si mette in proprio con attività di musica da ballo ed un complesso, In Tre sulla Strada, su cui possiamo benissimo soprassedere, senza divagare ulteriormente. Scrive poi brani per Nada, Peppino di Capri, Rita Pavone, Dalila. Per ora non sappiamo molto del suo Credo religioso, ma sappiamo che più avanti, nel 2004, scriverà il copione di una commedia sulla Beata Giuliana Puricelli, da buon bustese. Nel corso della sua attività, con lo pseudonimo di Complex, stringe una collaborazione con il collega Fernando Lattuada. Che un successo lo aveva ottenuto nel ’61, con Il Mare Dentro, portata a Sanremo dalla rossa Milva e da Gino Latilla. Latilla che collaborò col Quartetto Cetra in un brano, Vecchia Europa, che ha quasi il sapore di un proclama neofolk. Ma non divaghiamo ulteriormente.

Come mai “Complex” Prandoni e “Nando” Lattuada abbiano messo a frutto la loro collaborazione per scrivere i brani di un giovane complesso sconosciuto di area Legnano-Busto Arsizio non è dato sapere. Il complesso si chiamava Lydia e gli Hellua Xenium, oppure così l’hanno chiamato i due compositori/produttori. Qualunque cosa voglia dire il nome, li fronteggiava quindi tale Lydia, a quanto pare una corista scovata da Lattuada. Nonostante alcune suggestioni lo lascerebbero credere, o meglio nonostante la somiglianza del timbro della nostra Lydia con quello della voce apparsa sui primi solchi degli Jacula, Lydia non sarebbe Doris Norton. Pare lo abbia negato categoricamente lo stesso Bartoccetti e noi, una volta tanto, gli crediamo. A maggior ragione visto che la recente scoperta archeologica da parte dei loschi tipi della Black Widow ha portato alla luce un album perduto che ha finalmente risolto i dubbi sulla reale esistenza di Fiamma Dallo Spirito, ovvero la genovese Vittoria Lo Turco, che il simpatico marchigiano Bartoccetti nemmeno fa citare nella sua unica “biografia” autorizzata. A noi quindi è venuto il fondato dubbio che la Norton non avesse cantato nemmeno sui dischi degli Jacula stessi. Ma quindi forse Lydia è Fiamma? La suggestione sarebbe forte, ma non ci sono indizi, anzi, delle differenze di timbro ad insistete con gli ascolti si percepirebbero. E poi il vostro cronista non ha fonti per supportare una tesi del genere. E quindi preferisce non divagare.

Nemmeno Fiamma quindi c’entrerebbe con la nostra Lydia. La fonte migliore per saperne di più su questi temi resta comunque l’imprescindibile blog di John Martin (dal quale attingo io a mani basse, spudoratamente), oltre al libro Terzo Grado, indagine sul pop progressivo italiano, di Alessio Marino e Massimiliano Bruno. Io quel libro ce l’ho, l’ho preso ad una fiera al banco della Tsunami, ma poi l’ho dimenticato a casa dei miei. Pensate che scemo. Ora forse per questa indagine potrei basarmi su un quadro indiziario più vasto.

Lydia e gli Hellua Xenium hanno pubblicato in tutto due 45 giri, estremamente rari, per cui in tutto quattro brani, tutti scritti dal duo Prandoni / Lattuada. I singoli sono Guai a voi/Invocazione e Diluvio/Conoscevo un uomo. E il motivo per cui li inseriamo nella storia di oggi è il tono mistico, messianico e millenarista che li permea, quasi tutti. Certo, non sembrano troppo in linea con l’ottimismo beat della Messa dei Giovani, né con le preghiere banalotte dei J.E.T.. Nemmeno troppo forse con la linea ufficiale della Chiesa italiana. Ecco il testo di Guai a Voi:

Ci è stato detto tutto
Già da millenni fa
E non abbiam creduto
Ma il giorno arriverà
Sopra un cavallo alato
Il giusto tornerà
E per chi avrà peccato
Non ci sarà pietà

Guai a voi, o ricchi e potenti
Che siete già saziati
Guai a voi che ora ridete
Perché vi saran pianti
Guai a voi, o falsi profeti
Che non credete a niente
Guai a voi, o razza di vipere
Che avvelenate il mondo

Pare quasi una versione (giustamente) rancorosa del Discorso della Montagna. Si invoca il Giudizio, e ditemi voi se questo non è già doom di suo. Il brano è un buon episodio tardo sixties. Non starebbe male messo assieme a qualcosa dei Circus 2000, non fosse tanto disperato. Lydia dall’alto del pulpito tuona come un’ossessa. Fa quasi paura. E sotto, comunque, basso e batteria si danno un gran daffare con vortici e mazzate. Comunque, il vero colpo si trova al lato B, con Invocazione. E se questa fosse una storia poliziesca, sarebbe esattamente questo il punto della trama in cui il detective scoperchia l’ultimo decisivo tassello e risolve il caso.

Invocazione parte subito come un inferno. I vortici ritmici riprendono più impetuosi, pericolosi, violenti. Un organo stende un manto macabro sul mare impetuoso, sulle onde elettriche di una chitarra psych, mentre irrompe il vocalizzo di Lydia, che pare quasi una Edda Dell’Orso proveniente dall’Aldilà. Pare Proserpina, con in più la follia lucida di Medea. Poi arrivano i fulmini devastanti del riff horror per organo e chitarra elettrica, mentre la ritmica si riorganizza, tra i gorgoglii del basso. Poi un arpeggio lunare, intervallato dal bagliore dei lampi. E qui il canto domina ancora, con un senso di disperazione senza fine.

O Dio dei cieli
Quando verrai quaggiù
A liberare
Noi poveri mortali?

Ma come mai
Siamo finiti qui?
Tu che lo sai
Aiutaci a salvarci

Io non son degno nemmeno
Di pregarTi
Ma se c’è un uomo giusto
A questo mondo
Mandalo tra noi
A toglierci dal male

O Dio dei cieli
Chi pagherà per noi
Per riportarci
Nel regno della luce?

Non c’è traccia dell’ottimismo beat, “Dio è amore”, quelle cose là. La vita non è un canto da dedicare al Creatore. La vita è un inferno. E il Creatore può solo venire a salvarci, se ci concede tale Grazia. Questo è un brano davvero formidabile, converrete con me. E questi sono testi e musica scritti da Lattuada e Prandoni. Ma, oltre a Lydia, chiunque lei fosse, la prova dei quattro musicisti è fantastica, dal nostro punto di vista. E allora facciamo i loro nomi, prendendoli invece dal sito Italian Prog:

  • Lydia (voce)
  • Piero Giavini (chitarra)
  • Claudio Ferrario (tastiere)
  • Giovanni Lomazzi (basso)
  • Claudio Belletto (batteria)

A parte il mistero Lydia, credo che nessuno dei musicisti abbia poi raggiunto una qualche notorietà, nel campo della musica. Probabilmente la vita li avrà portati a mollare gli strumenti di fronte ad un impiego come rappresentante di una ditta locale di prefabbricati. Oppure avranno avuto vite interessantissime, chi lo sa. Però, ecco, questa è stata forse la prima formazione veramente dedita ad un rock cupo e occulto che poi avremo definito, semplificando a volte, con la parola “doom”. E trovare una perla del genere rende giustizia a una ricerca tanto faticosa che ci ha portato questa volta ad aggirarci in un mondo, quello del primo rock cristiano. Che non pensavamo davvero potesse regalarci chissà che sorprese. Immaginate ora solo per un secondo cosa avrebbe potuto essere un album intero degli Hellua Xenium. Ma coi se… lo sappiamo.

Invece ci fu solo un secondo singolo, ancora più sconosciuto di questo qui e più raro, salvo che non acquistiate il libro citato prima, che ne ha una ristampa allegata (a meno che non fosse solo nella prima tiratura, non so). Per decenni solo chi disponeva delle pochissime copie originali poteva ascoltarlo (sempre che fosse cosciente di avere una chicca del genere tra dei vecchi dischi). Poi appunto, a seguito della ristampa, almeno il lato A è comparso su YouTube. Il lato B no, per cui ve lo racconto io (il libro è a casa dei miei, ma il vinile me lo sono portato dietro). Diluvio è un altro incubo apocalittico, inizia con organo e flauto e poi esplode elettrica come Invocazione. Musica e testo sono in linea con quelli del singolo precdente.

E l’acqua scendeva dal cielo
Per quaranta giorni (e quaranta notti)
Un mare di fango portava
La morte sulla terra (la morte sulla terra)

Pioveva sui nostri peccati
Pioveva su di noi
(Pioveva sui nostri peccati
Pioveva su di noi)

Le urla del vento coprivano
I pianti ed i lamenti (i pianti ed i lamenti)
Corpi impazziti correvano
In mezzo a quell’orrore (in mezzo a quell’orrore)

Qualcuno si mise a pregare
E tutto si calmò
(Qualcuno si mise a pregare
E tutto si calmò)

E dopo millenni rivedo
Scendere dal ciеlo
(?) di fumo nero
Pioggia di veleno

Qualcuno cominci a prеgare
Se si vorrà salvare
(Qualcuno cominci a pregare
Se si vorrà salvare

La novità è il maggior peso dato al controcanto in falsetto (i versi tra parentesi), immagino ad opera del chitarrista Giavini (nel prossimo volume capirete perché). Un falsetto da chierichetto, da cugino di campagna. Stempera troppo, purtroppo, il dramma di Diluvio, che altrimenti non era tanto da meno di Invocazione. Il lato B poi, Conoscevo un Uomo, c’entra poco col tono degli altri tre brani degli Hellua Xenium. A parte l’introduzione classicheggiante e cupa, è una semplice canzone romantica di quegli anni. Certo che avrebbe potuto trovare spazio comunque nella colonna sonora di un thriller nero dell’epoca, tipo la stupenda I Giorni che ci Appartengono, canzone con cui Mina destava lo spettatore de La Morte Risale a Ieri Sera.

Comunque c’è poco da fantasticare e rimestare, perché Lydia e gli Hellua Xenium avrebbero cessato di esistere di lì a poco, inghiottiti da chissà cosa. E un complesso minuscolo e gigantesco si è dissolto nel nulla (o quasi), dopo aver suonato il rock occulto più evocativo che si potesse suonare, in Italia, in quegli anni. Non è così strano, se ci pensate bene, che la matrice sia però quella di un gruppo cristiano (anche se non proprio conciliante). Dove lo trovate nella nostra cultura un immaginario così macabro e visionario come quello di certi passaggi delle Sacre Scritture, predicate per secoli da cupi sacerdoti ad una popolazione che non ha mai abbandonato del tutto riti e superstizioni del suo passato pagano.

Ci sarebbe quasi da fare una riflessione su questo, sul fatto che tanta della nostra musica a volte non possa rinunciare a confrontarsi col Sacro. Anche solo per contrasto ed avversione, come i bersaglieri di Porta Pia. Non so se ne sarei capace, di sistematizzare per bene una riflessione del genere e di metterla per iscritto. Comunque la storia di oggi non si può dire del tutto conclusa. C’è un’appendice, succulenta, ma per oggi abbiamo divagato davvero troppo. La prossima volta però continueremo a seguire le tracce di Fernando Lattuada, Rinaldo Prandoni e del chitarrista Piero Giavini. Ma non oggi, che la Messa è finita. Andate pure in pace. O come preferite voi. (Lorenzo Centini)

3 commenti

  • Avatar di Peril

    Quindi cingomme si usa anche da voi, da sardo emigrato in continente ogni volta che lo dico mi guardano storto (EHH?, COSA?).
    Bel pezzo e bella rubrica complimenti.

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  • Avatar di Bonzo79

    Complimenti, che lavorone!

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  • Avatar di tapiroubriaco

    Bellissimo pezzo.

    In realtà il discorso dei Matia Bazar andrebbe proseguito eccome: liberatisi di Cassano, incisero Tango e Melancholia. In chiusura del primo c’è un testo genuinamente apocalittico (“I Bambini di Poi”), ma è nel secondo che si trova “Da Qui A”: non fosse per la produzione e il gain della chitarra, non è un’esagerazione dire che starebbe su un disco dei primi Queensryche o Crimson Glory.

    Da recuperare anche nel live a Monaco del 1987, su Youtube.

    Splendido prog crepuscolare gothicheggiante.
    Sì, proprio gli stessi di “Solo tu”.

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