Avere vent’anni: BATTLEROAR – st

Mi vergogno a definire il debutto dei Battleroar un mio disco-feticcio. Dovrebbe essere adorato universalmente, i ragazzini dovrebbero crescere col poster attaccato sulla parete della cameretta e i loro concerti dovrebbero tenersi in stadi ricolmi di folle adoranti che urlano i testi a memoria e fanno sacrifici umani nel pit per fare in modo che gli dèi del metal possano posare il loro benevolo sguardo su di loro. Quest’ultimo punto sarebbe pleonastico, in realtà, perché ascoltando Battleroar è chiaro che gli dèi del metal sono con loro, erano al loro fianco durante il processo di composizione e li ispiravano durante la registrazione. Amici, il metal è bello, ma l’epic metal di più. L’epic metal è l’essenza del metal, il suo grado zero, è quella sfumatura che permette di coglierne il vero significato e il vero scopo. Non puoi comporre epic metal se non sei trasfigurato nel trascendente: se ci provi, ti viene fuori un normale heavy metal, magari un buon heavy doom, ma niente di più. Ed è per questo che Battleroar non può essere opera semplicemente di quei cinque musicisti che all’epoca transitavano nel gruppo. Dobbiamo smetterla di essere aridi materialisti positivisti e tornare ad abbracciare il superno: quindi ogni ragionamento che non comprenda l’ipotesi sovrannaturale per spiegare la magnificenza di Battleroar non può essere presa in considerazione. Questa è opera degli dèi: è l’unica spiegazione.

Spuntati fuori dal nulla, all’epoca i Battleroar erano composti da cinque membri: quattro greci agli strumenti e un italiano, Marco Concoreggi, al microfono; e nessuno di loro aveva avuto esperienze significative prima di quest’album. Battleroar è allo stesso tempo semplice e complesso, immediato e difficile da assimilare, composto da vari strati densi e sovrapposti come è giusto che sia per il vero epic metal. Si sentono echi di Brocas Helm, Manowar, Cirith Ungol, forse soprattutto Omen; e a proposito di questi ultimi non è un caso l’ospitata di Kenny Powell, che suona la chitarra solista nella penultima Megaloman. Non c’è una nota fuori posto qui dentro, perché tutti i musicisti sono meravigliosamente immersi nelle composizioni, e anche la voce straziata e sgraziata di Concoreggi è perfetta, ma la prestazione più impressionante la dà Nick Papadopoulos, il batterista: questo è uno di quegli album per i quali vale la pena dedicare qualche ascolto solo alle linee di batteria.

Durante i tre quarti d’ora del disco veniamo trasportati di peso in mondi di ambientazione heroic fantasy con un’intensità e un’immedesimazione raramente raggiunti nella storia. Riusciamo quasi plasticamente a vedere l’eroe che arranca nel fango, sotto la pioggia battente, trascinando il suo spadone e gemendo per le ferite della battaglia; lo sentiamo nella furia della mischia a menare fendenti, schiumante di odio; percepiamo il suo furore mentre, in cima a un tumulo di teschi, annuncia la sua vendetta al mondo, gonfiando il petto di un’orgoglio ancestrale; ne avvertiamo il senso di allerta mentre avanza con difficoltà nel fango di antichissime paludi abitate da spettri antropofagi, scrutato da occhi inumani assetati di sangue. Ma soprattutto qui c’è Morituri Te Salutant, uno dei pezzi più epici di sempre, per descrivere il quale davvero non esistono parole. Mi ripeto: il fatto che questo disco non abbia consegnato i suoi autori alla fama eterna è un crimine. Eppure non esiste sulle piattaforme di streaming e persino trovare un’immagine della copertina in rete è complicato. Se non siete indifferenti al genere, o alle atmosfere che ho citato, ascoltarlo fino ad assimilarlo completamente è un obbligo morale. Ricordatevi che gli dèi del metal vi osservano. (barg)

2 commenti

  • Li ho seguiti in diretta. Concoreggi era oltre che un ottimo cantante/interprete (per il genere, con quella voce magniloquente e sofferta) anche un grande compositore. Il secondo ed il terzo sono anche più belli del primo. Poi quando ha visto un po’ di figa l’epic metal è andato a farsi benedire e tanti saluti… nei due successivi hanno raccattato il gatto in calore dei Sacred Steel, che contro ogni previsione riesce a cantare in modo non irritante con loro.

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  • Purtroppo una musica epicissima ha da contraltare un cantante monotono. Un peccato mortale.

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