Un Sabbath italiano: intervallo

Nel caso qualcuno se lo stesse chiedendo, la rubrica “un Sabbath italiano” non ha ancora chiuso i battenti. Ce la stiamo semplicemente prendendo comoda. Un po’ perché c’è da occuparsi dell’attualità, delle nuove uscite. Un po’ perché non vi crediate che col salario di Metal Skunk ci si arricchisca: per campare bisogna fare anche altri lavori, che giocoforza portano via tempo. E poi, anche volendo, i bonus produttività se li prende tutti il Belardi. Sempre che ve ne interessi qualcosa, comunque. Magari, al contrario, non ve ne viene niente di rovistare per l’ennesima volta tra i cassetti impolverati dei ’70 italiani. Oppure a maggior ragione vi siete anche rotti di aspettare qualche mirabolante Master of Reality all’aglio, olio e peperoncino. Che poi, inevitabilmente, mica si trova. Noi però proseguiremo ancora quel discorso, tra qualche tempo. C’era solo bisogno di una pausa per raccogliere energie ed idee. C’era bisogno di un intervallo.

L’intervallo è anche un’opportunità per spaziare, mica solo per staccare la spina. La Radio Televisione Italiana, ad esempio, in caso di problemi tecnici di trasmissione, ne approfittava per mostrare qualcosa, per approfondire. Credo molti ancora associno il suono classico dell’arpa a immagini sfocate come vecchie cartoline. Sutri, Chieti, Dolceacqua, Pozzuoli. Decine di borghi apparivano sugli schermi di tutta Italia quando non c’era internet e manco il marchio/franchising de I Borghi Più Belli d’Italia. Non male come intervallo, in linea con la vocazione educativa con cui in fondo la RAI inizialmente si è diffusa. Certo, niente male pure quando l’intervallo inizialmente vedeva solo dei fermo immagine di pecore (io le guarderei per ore), ma mostrare pezzi meno conosciuti d’Italia agli italiani stessi era un modo davvero intelligente di riempire il tempo. Sarebbe bello anche poterli visitare ancora come potevano apparire ancora nei ’60 e ’70. Prima del turismo mordi e fuggi e di massa che ha indelebilmente trasformato alcuni di questi. Per dire, ero a Pitigliano qualche giorno fa, borgo splendido, ma si vanta di essere un “centro commerciale naturale“. Ditemi se non esiste definizione più ignobile per un insediamento etrusco, poi medievale e rinascimentale. Ditemi voi se vi verrebbe voglia di esplorare un centro commerciale naturale. Ditemi voi se non preferireste osservare un gregge di pecore per ore, piuttosto.

Di un paio di intervalli avevano forse bisogno pure i Black Sabbath, nel 1971, durante le registrazioni di Master of Reality. Terzo album in poco più di un anno, breve e composto di “sole” sei canzoni. Cupe, elettriche, fangose, mugghianti. Due brevi intermezzi allungano il minutaggio solo di poco, ma stemperano nettamente l’atmosfera. Sono, le conoscete sicuro, Orchid ed Embryo. E se la prima delle due (più avanti in scaletta, a dire il vero) è un tenue esercizio classico di chitarre acustiche e forse un po’ di synth leggero, la seconda, pur brevissima, sfrutta pure l’elettricità per creare un piccolo viaggio abissale ed arcano, che sa di Medioevo, corti sanguinarie, segrete sotterranee e orde barbare alle porte della città. Pare quasi suonata con strumenti antichi, rinascimentali. L’effetto è incredibile. Cupo, sì (il trend dell’album è cupissimo), ma anche misterioso, antico. Chissà se Iommi si fosse dedicato in proprio ad una ricerca del genere cosa sarebbe potuto saltare fuori. Magari qualcosa un po’ kitsch come i Blackmore’s Night. Oppure una sorta di Dead Can Dance doom (meglio). Boh. Nessun problema, comunque. Iommi si è dedicato sempre al RIFF, e noi gliene siamo grati. Orchid ed Embryo restano due episodi, nella discografia dei nostri. Non so dire quanto filologici, non sono esperto di musica medievale o rinascimentale (purtroppo), ma evocativi. Questo lo posso dire con certezza.

Ad andare a cercare qualcosa di analogo, nella musica anni ’70 italiana, verrebbe naturale provare a dare retta al Barg e mettersi a studiare la prima discografia di Angelo Branduardi. Musicista colto e fortemente influenzato dalla musica dei secoli bui e di quelli immediatamente successivi, teoricamente un po’ meno bui. Sapete, il Barg ne è un grande fan e me ne consiglia da un po’ l’ascolto. Purtroppo però non ce l’ho fatta ancora a scardinarne l’ascolto, nemmeno questa volta. Non so perché, dopo pochi minuti mi viene sempre voglia di mettete su Demons & Wizards degli Uriah Heep. O direttamente gli Slayer. Barg, magari un giorno ti darò soddisfazione su Branduardi, ma per ora non ce la fo. E comunque questo è un pezzo-intervallo, non cerchiamo una canzone compiuta, un testo, un’epopea. Ci basta un breve intermezzo strumentale. Evocativo, però, ancestrale.

Dal 25 ottobre 1976 al 26 febbraio 1994 la RAI ha riempito una brevissima fascia temporale, un quarto d’ora al giorno sì e no, prima di TG e prima serata, con una trasmissione contenitore chiamata Almanacco del Giorno Dopo. Se siete nati entro la prima metà degli ’80 come me la ricorderete. Effemeridi, santo del giorno, curiosità storiche, scientifiche, botaniche et caetera. Ad annunciare quei pochi minuti, una musica inconfondibile. Misteriosa. Festosa come lo sarebbe la melodia suonata da un satiro. Si chiama Chanson Baladée e non sono davvero riuscito a capire per davvero se si tratti di un’aria che proviene direttamente (e per davvero) da secoli passati, oppure se sia farina totalmente del sacco di Antonino Riccardo Luciani. Musicista di conservatorio, direttore d’orchestra e compositore di musiche per la tv. Chanson Baladée è credo il brano più famoso di un musicista delle retrovie televisive. Sono sicuro che a spulciarne la discografia (fosse tutta reperibile: la vedo dura), si troverebbero sorprese. Comunque oggi, per questo intervallo, un pezzo di arcano lo prendiamo in prestito da un musicista classico, non da una band di capelloni influenzati dagli inglesi.

Non ho la tv da un pezzo, quindi scrivendo ora ho scoperto che l’Almanacco del Giorno Dopo è anche tornato in onda, in una versione personalizzata sul personaggio di Drusilla Foer, personaggio lanciato prima da YouTube e poi dalla tv stessa. Vi riporto cosa dice Wikipedia: “Secondo la sua biografia, del tutto di fantasia, Drusilla Foer è una nobildonna, progressista, icona gay e di stile, nata, in un’epoca imprecisata, in una famiglia benestante di Siena e cresciuta a Cuba, dove il padre, diplomatico, si era trasferito con la famiglia; da adulta ha vissuto in numerose città, fra cui New York, dove ha aperto il Second Hand Dru, un negozio di abiti usati, divenuto punto di ritrovo per artisti e intellettuali. In America diventa famosa calcando le scene dei maggiori teatri, sposa un ex pugile texano, da cui poi divorzia; quindi si trasferisce a Bruxelles e sposa in seconde nozze il fantomatico industriale belga Hervé Foer. Rimasta vedova, torna a Firenze, dove vive sola, con l’aiuto della governante Ornella”. Primarie subito!

Spettacolo, narcisismo e commercio, ormai questo c’è da aspettarsi. Io se riesco questa estate vedo di visitare ancora qualche borgo che non mira ad assomigliare ad un centro commerciale o a uno sfondo per selfie di gente con l’attico in città. Noi invece, ci rivediamo per il prossimo volume. Vi anticipo già, ovviamente, che torneremo ad occuparci di chitarre elettrificate. (Lorenzo Centini)

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